San Giovanni tra inganni e Commedia

Oggi, 24 giugno, come ogni anno a Firenze (e non solo! Sono tantissime le città e i paesi legati a quest’uomo) festeggiamo San Giovanni Battista, patrono della città. Ma perché proprio lui?

La storia di Giovanni Battista

Giovanni, nato per miracolo da madre sterile a seguito dell’annuncio dell’arcangelo Gabriele, fu l’ultimo profeta dell’Antico Testamento. Egli condusse parte della sua vita profetizzando la venuta del Cristo esortando alla conversione e alla penitenza coloro che si erano macchiati di peccato per essere, quindi, in grado di accogliere la nuova vita. L’uomo usava battezzare nelle acque del Giordano tutti coloro che seguivano la sua parola e se molti già consideravano egli stesso il Messia, lui sapeva di essere solo il Precursore. Fu proprio Giovanni, infatti, a battezzare Gesù in persona, portando così a termine la sua grande missione. Purtroppo però, l’uomo si inimicò il re d’Israele, Erode, poiché ne criticava la condotta peccaminosa. La moglie del re, Erodiade, convinse il marito a incarcerare Giovanni, ma Erode non voleva ucciderlo, lo temeva e in qualche modo lo stimava per la sua vita retta e pacifica. La donna, che non si dette per vinta, durante un banchetto fece danzare la figlia ed Erode, per premiarne la bravura, le disse “Chiedimi qualsiasi cosa e io te la darò”. La giovane, su consiglio della madre, rispose “la testa di Battista”. Così fu fatto, Giovanni venne decapitato e la sua testa portata su un vassoio durante la festa. Era il 29 agosto. Così come per la Vergine Maria, per il Santo si celebra non solo la morte, ma anche il dies natalis, ovvero la ricorrenza della nascita terrena, appunto ricordata il 24 giugno.

Battesimo di Cristo di Guido Reni (Kunsthistoriches Museum di Vienna). Fonte Wikipedia.

Il Battistero di Firenze

Il Battistero, intitolato a suo nome, si dice sorgesse su un antico tempio dedicato al dio della guerra Marte, già patrono dell’antica Firenze romana. Con i longobardi (intorno al VI secolo d.C.) si introdusse il culto di San Giovanni, amato per la cura e la chiarezza dei suoi insegnamenti, ma anche per il suo grande coraggio. Già il suo nome ha un significato importante: in ebraico si trova come “Iehóhanan” e significa “Dio è propizio.

Il Battistero di San Giovanni in Piazza Duomo a Firenze.

Firenze in festa

La festa del Santo Patrono da sempre significa gioia e celebrazioni di ogni tipo per la città del Giglio. Solitamente la giornata termina con i “fochi” dal Piazzale Michelangelo, purtroppo però quest’anno – causa Covid19 – il Comune di Firenze ha deciso di annullare la manifestazione.

Questo però non significa che non ci siano altre modalità di festeggiare! Tra gli altri, infatti, alle 18:00 di questo pomeriggio, il Sindaco Dario Nardella consegnerà 10 Fiorini d’oro a coloro che si sono distinti per il loro impegno in ambito civile, sociale, culturale, sportivo e dell’artigianato. I premiati saranno: l’associazione Duccio Dini; Manetti e Battiloro; l’Associazione Niccolò Ciatti; la famiglia Pinzauti; il Comitato minori abbandonati dallo Stato al Forteto; il sindaco di Ravenna Michele de Pascale (per l’impegno nell’aver custodito accuratamente le spoglie di Dante); Mina Gregori; il Banco Alimentare; medici e infermieri che, nonostante la pensione, sono tornati in servizio per effettuare le vaccinazioni Mandela Forum e – last but not least – i Canottieri comunali.  L’evento avrà luogo al Forte Belvedere.

Quale collegamento tra il Santo e il Sommo Poeta?

Innanzitutto, sappiamo che un anno dopo la sua nascita, nel 1266, l’Alighieri venne battezzato proprio nel suo “bel San Giovanni. E qui, anni dopo, come ci racconta nella sua Divina Commedia, salvò un neonato dall’annegamento nella fonte battesimale che ruppe e rimase tale fino alla fine del Cinquecento: «l’un de li quali, ancor non è molt’ anni, / rupp’ io per un che dentro v’annegava» (Inferno XIX, vv. 19-20).

Dante è, quindi, legato fortemente a questo luogo e al suo Santo, e così anche Firenze stessa che, quando nel 1252 la Zecca Fiorentina coniò per la prima volta il Fiorino d’Oro (prima il fiorino era d’argento e, pensate, era dalla caduta dell’Impero Romano che non si creavano monete con il materiale più prezioso di tutti), decise di raffigurare su uno dei due lati proprio la sagoma del Santo con la scritta “S • IOHANNES • B •” (sull’altro lato vi è il simbolo di Firenze, il giglio). Giovanni è raffigurato in piedi, con l’aureola attorno al capo, indossa una tunica lunga fino al ginocchio e un mantello chiuso all’altezza del petto con un bottone. Oggi è considerata una moneta molto rara e il suo valore è molto alto: piò raggiungere addirittura i 1000€.

Avanti e retro del fiorino d’oro. Fonte Monete di valore.

San Giovanni non vuole…

A questo oggetto e alla raffigurazione del Santo vi è legato un famoso detto toscano: San Giovanni non vuole inganni! Il Fiorino d’oro, fin da subito, divenne la moneta più diffusa e stabile in Europa, utilizzata negli scambi commerciali tra i differenti Stati fece sì che Firenze e la Toscana divenissero delle ricche potenze nel Medioevo. All’epoca, coloro che facevano parte dell’Arte del Cambio, per stabilire se una moneta fosse autentica oppure no, usavano batterla sul loro “banco”, ma con il Fiorino questo non era necessario: esso era talmente solido e affidabile che, appunto, non permetteva alcun inganno!

Matro Adamo, il falsario dei fiorini

In realtà, ci furono delle personalità che tentarono di coniarlo. Una delle più famose è Mastro Adamo da Brescia, familiare dei conti Guidi che ospitarono Dante durante la prima parte del suo esilio. Nel 1281 il castello del piccolo paese del Casentino divenne famoso per una colpa: qui Mastro Adamo coniò, per conto dei Guidi stessi, il fiorino d’oro. Tale crimine veniva duramente condannato nel Medioevo e fu così che l’uomo venne arso sul rogo proprio a Firenze, poco dopo aver commesso il crimine. Nella Divina Commedia i falsari si trovano riuniti nella X Bolgia dell’VIII cerchio. Quando il Sommo giunge in questo luogo nota immediatamente un’anima dannata particolare: ha la bocca aperta per la troppa sete e il ventre molto gonfio («fatto a guida di leuto, / pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia /tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto», Inferno, Canto XXX, vv. 49-51) a causa dell’idropisia (quando nel corpo umano si accumula liquido sieroso). E’ quindi costretto a pensare continuamente ai luoghi del Casentino, dove peccò, così ricchi di freschi ruscelli.

Miniatura tratta dalla Divina Commedia di Alfonso d’Aragona (Franco Cosimo Panini Editore).

Dopo questo breve racconto sul patrono della nostra amata Firenze, non possiamo che augurare a tutti un buon San Giovanni a tutti!

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Bibliografia e sitografia:

Barbero Alessandro, Dante, Laterza, Bari 2020
Seriacopi Massimo, Dante senza veli. Una biografia, Edizioni SettePonti, Castelfranco Piandiscò (AR) 2021

Enciclopedia Treccani, Adamo (Mastro Adamo).
Famiglia cristiana, San Giovanni Battista, il profeta che annunciò Cristo già nel grembo materno.
Firenze made in Tuscany, Tutto quello che dovete sapere su San Giovanni a Firenze.
La Repubblica, San Giovanni, ecco chi verrà premiato coi Fiorini d’Oro.
Paolo Penko, Il fiorino.

L’abbigliamento femminile nel Medioevo

Non è mai facile ed immediato immaginarsi la donna del Medioevo, probabilmente a causa delle rare immagini di figure femminile a noi rinvenute, spesso troppo diverse tra loro, che portano inevitabilmente a creare confusione.

Prima ancora di farle rivestire qualsivoglia incarico, infatti, è giusto avere un’immagine ben delineata dell’aspetto esteriore della donna. E quale miglior modo scegliere se non partire dall’abbigliamento

Come si vestivano le donne nel Medioevo?

Troppo spesso le invenzioni narrative ci hanno portato a immaginare gli abiti femminili nei modi più disparati: c’è chi sostiene il vestito lunghissimo completamente privo di ricami o decori, chi invece è convinto che la donna mettesse in mostra le curve del proprio corpo, capelli raccolti, capelli sciolti, cuffie o veli. Insomma, vediamo di fare un po’ di chiarezza. 

Iniziamo con qualche cenno storico: la vera e primordiale moda medievale è nata dall’influenza che hanno avuto gli indumenti dei primi invasori barbari sulla moda romana. Una delle più grandi innovazioni furono le brache, antenate dei moderni pantaloni.

Con il passare degli anni e l’annessione di queste popolazioni a quelle che già abitavano buona parte dell’Europa occidentale, ciò sul quale si iniziò a concentrarsi maggiormente non erano solamente le forme dei nuovi indumenti, ma anche i materiali. I grandi commerci verso il Medioriente portarono nella “più civilizzata Europa” seta e cotone, che ancora oggi sono la base dell’industria tessile.

Il peplo

Ma guardiamo nello specifico alla moda femminile. Inizialmente la donna rimase fedele al peplo, abito tipico della cultura greca, che man mano subì modifiche e variazioni. Alla lunga tunica venne cambiata la scollatura e ne venne inserita una profonda e verticale, chiusa da lacci che ricordavano la chiusura di un corpetto. Il materiale prediletto era la lana
Vi era una fascia orizzontale, molto spessa, che doveva sottolineare la vita. Più i lacci della parte superiore del vestito erano stretti, più esaltavano la silhouette della donna, che veniva ben definita per sfociare poi in una gonna decorata e rotonda.

Vi era la possibilità di vedere anche lunghe maniche di camicia che fuoriuscivano delle tuniche: era una sorta di sottoveste in camicia che arrivava fino a terra chiamata sotano. Una caratteristica che impreziosiva l’abito era lo strascico che veniva portato arrotolato attorno al braccio dalle donne per non rischiare che si sporcasse eccessivamente.

Via le brache!

Per quanto gli indumenti femminili non si allontanassero eccessivamente dalla moda maschile, le donne non indossavano le brache. L’idea di abbigliamento intimo, infatti nel Medioevo non era del tutto sviluppata: nessuno indossava le mutande, né uomini né donne, ma per queste ultime era comune stingersi al petto un velo di mussolina come se fosse una sorta di reggiseno

Dal collo alla punta dei piedi

L’abito per eccellenza nella moda femminile rimane la tunica. La lunghezza della veste doveva ricoprire il corpo della donna completamente, comprendendo anche i piedi. Sotto la lunga gonna era uso indossare delle calze, mentre sopra cuffie e mantelle soprattutto nei mesi più rigidi. 
Ciò che poteva distinguere una donna dall’altra erano le decorazioni degli abiti, più sfarzose per le donne provenienti da condizioni economiche più favorevoli, e la modalità con cui si acconciavano i capelli.

La copertura quasi integrale della testa era indicata prevalentemente per le donne sposate. I veli che queste si ponevano sul capo, spesso coprivano anche le spalle e venivano fermate sull’abito da spille che ne impedivano il movimento. Alcune donne portavano anche cappelli, alcuni piuttosto bizzarri. 

Le calzature che venivano maggiormente utilizzate erano basse, di cuoio, ben decorate, di forma appuntita, addirittura alle volte foderate di pelliccia

L’abito fa il monaco

Le famiglie più abbienti, per sottolineare il loro titolo, utilizzavano stoffe e materiali degli stessi colori dei loro stemmi o che a primo sguardo, ricordassero immediatamente la casata. Questo valeva anche per le donne e per le serve. 

Le donne arricchivano i loro abiti con gioielli, prevalentemente d’oro, e acconciature particolari. I capelli non venivano portati sciolti, anzi, venivano fermati spesso con trecce che a loro volta venivano inserite all’interno di una rete per sorreggerle.
Anche in quel periodo era importante come si appariva alla società, soprattutto perché poteva essere causa del proprio destino e indirizzarlo verso una certa fortuna o meno. 

Forse con queste poche informazioni non faremo più troppa fatica ad immaginarci quelle belle signore che si muovevano tra le abitazioni, i mercati e nelle chiese nel secolo delle Luci e delle Ombre

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Bibliografia e Sitografia: 
http://ilmondodiaura.altervista.org/MEDIOEVO/ABBIGLIAMENTO.htm
https://it.wikipedia.org/wiki/Abbigliamento_nell%27Alto_Medioevo

San Francesco e il crudo sasso della Verna

Nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Paradiso, XI, 106-108

Se volessimo parafrasare alla lettera questa terzina dantesca, potremmo scrivere che sulla cima rocciosa tra le valli del Tevere e dell’Arno ricevette da Cristo l’ultima approvazione con le sacre stimmate, che le sue membra portarono impresse per due anni. Ma di quale cima rocciosa si tratta? E chi è il soggetto della frase? Per comprenderlo, partiamo dall’inizio dello splendido canto XI del Paradiso dantesco.

San Francesco nel Paradiso dantesco attraverso le parole di San Tommaso

Siamo nel cielo del Sole, a parlare è lo spirito di San Tommaso d’Aquino, che Dante e la nostra Beatrice avevano incontrato già nel canto precedente. L’anima beata di San Tommaso sta spiegando al poeta pellegrino che Dio, per amore della Chiesa, dispose due guide che la conducessero verso il bene, San Francesco e San Domenico, fondatori dei due grandi ordini monastici del secolo XII, i quali avevano come loro scopo fondamentale la riforma morale del mondo cristiano.

E’ a questo punto che San Tommaso inizia la celebrazione della figura e dell’opera di Francesco d’Assisi, mettendo in rilievo le caratteristiche della sua personalità e i momenti più importanti della sua vita e della sua azione. Ecco allora che ci narra come sulla costa del monte Subasio nasce il nuovo sole del mondo. Prima di presentare la figura di San Francesco, infatti, il Poeta presenta il luogo in cui egli nacque e l’ambiente in cui incominciò a svolgere la sua missione. Fra le valli del Topino e del Chiascio si eleva un massiccio montuoso, la cui cima più alta è proprio il Subasio, il monte su cui sorge Assisi:

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vole (vv. 52-54).

In questa terzina, Dante sottolinea la rispondenza fra sole vero e sole figurato, poiché egli, nell’antico nome di Assisi – Ascesi – vede il significato di “ascendere”. Così, con la nascita di Francesco ad Assisi nasce il nuovo sole.

L’uomo che sposò la povertà

San Tommaso poi ricorda la rinuncia di Francesco ai beni terreni per abbracciare e sposare l’assoluta Povertà, rinuncia fatta davanti alla curia vescovile della sua città e alla presenza del padre. Francesco, infatti, figlio del mercante Pietro Bernardone, abbandonò le cose del mondo e iniziò la sua vita di ascesi nel 1206, all’età di ventiquattro anni. Fondamento della sua nuova vita e della sua dottrina fu l’amore per la povertà. Per essa dovette lottare contro la fierezza del padre, che giunge a citarlo davanti alla curia vescovile di Assisi. In quell’occasione Francesco, non solo rinunciò a tutti i suoi beni, ma in presenza del vescovo e del popolo restituì al padre anche gli abiti che indossava

San Francesco “dipinto” da Dante

I versi di Dante e le immagini che essi evocano sono quasi degli scomparti d’affresco, che illustrano e accompagnano la storia. Una storia d’amore tra Francesco e la Povertà: un sentimento tutto dantesco, di uomo vivo. La storia di questo amore continua a svolgersi, infatti, con il dinamismo proprio dell’affresco, dove le singole scene si susseguono senza interruzione le une alle altre, su uno sfondo di oro e d’azzurro.

San Tommaso continua spiegando che a Roma, il poverello di Assisi ottiene l’approvazione del proprio ordine prima da Innocenzo III e poi da Onorio III. In seguito, recatosi in Oriente, Francesco cerca di diffondere in quelle terre la parola di Cristo, ma fallito questo tentativo, deve tornare in Italia. Ed ecco che qui, proprio sul monte della Verna, riceve, due anni prima di morire, le sacre stimmate.

Nel 1224 Francesco, mentre si trovava sulla Verna, per un periodo di solitudine e penitenza, ricevette direttamente da Cristo l’ultimo riconoscimento, il più grande, della sua missione. Di nuovo il poeta ci dona un bellissimo schizzo panoramico: nel crudo sasso intra Tevero e Arno (v. 106). I luoghi qui citati da Dante ci appaiono oggi sicuramente diversi da come dovevano essere agli inizi del Trecento. Nel 1213 il Conte Cattani, signore di Chiusi della Verna, donò il Sacro Monte a San Francesco d’Assisi cosicché questi vi erigesse un convento. Oggi il Santuario si trova immerso nella cornice naturale della splendida faggeta secolare, in un luogo di pace e meditazione.

Ma torniamo alla Commedia e concludiamo la narrazione di San Tommaso, fino al momento in cui Francesco muore sulla nuda terra, raccomandando madonna Povertà ai suoi seguaci ed eredi:

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo 
piacque di trarlo suso a la mercede 
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

a’ frati suoi, sì com’a giuste rede, 
raccomandò la donna sua più cara, 
e comandò che l’amassero a fede;

e del suo grembo l’anima preclara 
mover si volle, tornando al suo regno, 
e al suo corpo non volle altra bara (vv. 109-117).

Verso l’iconografia francescana di Cimabue e Giotto

Con la narrazione delle vita di San Francesco, accompagnata da descrizioni paesistiche dettagliate, naturalistiche, che si appoggiano a dati concreti, Dante diventa, potremmo dire, il capostipite di una iconografia del Santo e delle sue storie, che troverà una traduzione figurativa di ineguagliabile livello nelle creazioni di Cimabue e Giotto. Ma questa è un’altra storia, di cui vi parleremo sicuramente, ma nei prossimi giorni. Adesso vi lasciamo con una carrellata di splendide immagini, tutte da gustare con occhi pieni di ammirazione.

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Cimabue, Madonna in trono con Angeli e Santi, particolare della figura di San Francesco, 1278-1280 ca, affresco, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco.

Giotto, San Francesco dona il mantello al cavaliere povero, 1297-1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco.

Giotto, San Francesco rinuncia ai beni terreni, 1325-1328, affresco, Firenze, Basilica di Santa Croce, Cappella Bardi.

Giotto, Il pontefice Innocenzo III approva la regola francescana, 1297-1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco.

Giotto, San Francesco presenta la regola al pontefice Onorio III, part., 1325-1328, affresco, Firenze, Basilica di Santa Croce, Cappella Bardi.

Giotto, Morte di San Francesco, part., 1325-1328, affresco, Firenze, Basilica di Santa Croce, Cappella Bardi.

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Bibliografia e sitografia

Dante Alighieri, La Divina Commedia, con prefazione di Giuseppe Ungaretti, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1965
I luoghi di Dante, sito web Il bel Casentino, https://www.ilbelcasentino.it/luoghi-dante-seq.php?idimg=7816
Chiusi della Verna, sito web Le Vie di Dante, https://www.viedidante.it/citta/chiusidellaverna/

Fonte immagini.

Piccarda si racconta… – Parte 1

Forse pochi di voi mi conoscono e lo capisco… Effettivamente non sono nota quanto Beatrice o Francesca di cui tutti bene o male hanno sentito parlare almeno una volta, ne hanno conosciuto le storie o letto passi della Divina Commedia in cui sono protagoniste. Ecco, quindi, che ho deciso di raccontare al meglio me, la mia famiglia, il mio mondo! Anche perché, non solo sono presente nell’opera più importante di Dante Alighieri, ma io quest’uomo lo conoscevo personalmente!

Abitavamo nello stesso quartiere, a pochi passi l’uno dall’altra, e mia cugina Gemma un giorno divenne sua moglie. Le nostre famiglie si conoscevano da tempo e noi figli siamo cresciuti insieme per i vicoli stretti del quartiere di San Pier Maggiore. Io avevo due fratelli, Corso e Forese, che col tempo divennero amici di Dante, anche se poi crescendo i rapporti andarono in parte incrinandosi poiché, quando ci fu la scissione dei Guelfi in Bianchi e Neri, mentre l’Alighieri si schierò con i primi, la mia famiglia preferì la seconda fazione

Forese Donati, “amico di penna” di Dante

Forese Donati, mio fratello, era conosciuto a Firenze anche per essere un verseggiatore poiché amava dilettarsi nello scrivere e, pensate, addirittura scambiò sonetti burleschi proprio con Dante in una Tenzone scritta forse tra il 1293 e il 1296. I due, in queste poesie, si prendevano gioco l’uno dell’altro, per divertimento! Eh però, alcune verità sotto sotto c’erano… Del resto come dite voi? Arlecchino si confessò burlando! Se da una parte l’Alighieri accusava mio fratello di non soddisfare la moglie Nella tra le mura intime di casa, Forese cercava di colpire Dante sul suo lato economico, effettivamente poco cospicuo, poi incrinato dal mestiere turpe del padre Alighiero, sospettato e conosciuto da molti come usuraio (esercizio mal visto anche dallo stesso Dante che colloca le anime colpevoli di tale peccato nel III girone del VII cerchio dell’Inferno, classificandoli come “violenti contro Dio” addirittura!).


Ma l’invettiva più forte nei confronti di mio fratello fu quella riguardante la gola tanto che poi Dante lo inserì nel Purgatorio proprio nella cornice (VI) dei golosi. Se in vita mio fratello ha potuto godere del cibo e del vino, nell’Aldilà è costretto a sentir per l’eternità la mancanza di questi vizi. Quando i due si incontrarono nel regno dei morti ebbero una lunga conversazione e tra i tanti discorsi Dante chiese a mio fratello quale fosse stato il mio destino e questo gli preannunciò la mia beatitudine in Paradiso, ma parlarono anche dell’altro mio fratello, Corso…

Corso Donati, da compagno di battaglia a Campaldino a nemico politico

Questo è, molto probabilmente, più conosciuto di Forese, anche se il rapporto migliore Dante lo aveva con quest’ultimo. Corso fu uno dei maggiori esponenti politici della Firenze a cavallo fra 1200 e 1300. Era un uomo che amava la politica e la violenza, ecco perché quando la città si divise in fazioni, scelse quella più riottosa, la parte nera dei Guelfi, divenendone uno dei capi assoluti. Dato il suo modo di fare, così aggressivo, venne soprannominato “Il Barone”.

Ancor prima della scissione dei Guelfi, il Sommo Poeta e mio fratello combatterono fianco a fianco per difendere la propria fazione dagli aretini Ghibellini. Lo fecero l’11 giugno 1289 nella piana di Campaldino, in Casentino. La zona, ancora oggi bellissima, appena sotto il Castello di Poppi che fu dei Conti Guidi, bagnata dal fiume Arno che nasce poco più sopra sul Monte Falterona, si macchiò interamente di sangue. La Battaglia di Campaldino fu infatti molto cruenta: entrambe le parti videro molti dei propri soldati esalare lì l’ultimo respiro, soprattutto da quei ghibellini brutalmente sconfitti. Dante all’epoca era giovanissimo, aveva appena 24 anni e per lui la guerra era cosa sconosciuta. Fu la prima e unica volta in cui si trovò a cavallo armato di pugnale e coraggio. Corso, invece, era uno dei condottieri che guidarono i Guelfi nella battaglia. Grazie anche alla sua bravura nel combattere, la fazione vinse e fece sì che Firenze divenisse una delle città più potenti e temibili dell’intera Toscana.


Le azioni compiute da questo mio fratello così fiero e violento furono moltissime… quasi tutte discutibili e dolorose per molti, tra questi io, sua sorella Piccarda. Il legame di parentela per Corso significava ben poco

Corso rapisce Piccarda

Quando sono nata e cresciuta io, Firenze era avvolta in un clima instabile fatto di violenza, intrighi e incerte alleanze. Ritirarmi nel convento di Santa Chiara mi avrebbe permesso sì di avvicinarmi al Signore, ma anche di allontanarmi dal quel mondo così irruento, frenetico, subdolo… Purtroppo però questo non bastò! Corso un giorno venne da me, ma non per farmi visita come avrebbe dovuto fare un buon fratello, bensì per prendermi e portarmi via di lì, da quel luogo a me così caro. Senza chiedermi il consenso, lui aveva già deciso di cedermi in sposa a Rossellino della Tosa, anch’egli esponente di spessore della parte Nera dei Guelfi. Il motivo era chiaro e semplice, nonché subdolo e malvagio: la nostra unione avrebbe apportato alla mia famiglia alcuni vantaggi economici e a Corso altrettanti riguardanti la sua carriera politica. Venni strappata dalla mia casa in un atto sacrilego che mi obbligò a venir meno ai voti. Nonostante questo, la bontà del Signore poi mi salvò: poco dopo il matrimonio lasciai il mondo terreno per risiedere tra i beati in Paradiso.


Corso, invece, fu ripagato con le sue stesse armi per il gesto inflittomi e per tutte le malvagità che aveva fatto a chiunque si fosse messo a guastare i suoi piani. Quel Rossellino, infatti, che per un certo periodo fu suo alleato e “amico”, ben presto si alleò con i tanti nemici che negli anni mio fratello si era creato. Il 6 ottobre 1308 venne da questi condannato a morte: colpevole di tradimento, così dicevano. Corso non si dette per vinto e provò con tutte le sue forze a fuggire dal terribile destino, ma fu tutto vano. Egli cadde da cavallo, ma rimasto nella staffa impigliato, venne dolorosamente e con furia trascinato per le strade polverose finché morte non sopraggiunse…

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Bibliografia e sitografia

Aleardo Sacchetto, Il canto di Piccarda Donati, in Dieci letture dantesche, Le
Monnier, Firenze 1960.
Alessandro Barbero, Alighieri Durante detto Dante, Laterza, 2020.
Alessandro Barbero, 1289. La battaglia di Campaldino. Gli anni di Firenze, Ebook, Laterza, 2019.
Dante Alighieri, La Divina Commedia ed. integrale, Europea Book, 2011.
Fausto Montanari, La Piccarda di Dante, in Miscellanea di studi danteschi: in memoria di Silvio Pasquazi, Federico & Ardia, Napoli 1993.
Marco Santagata, Le donne di Dante, Bologna, Il Mulino 2021

Ernesto Sestan, Donati Corso, in Enciclopedia Dantesca, 1970, sito.
Le Gallerie degli Uffizi, Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso, sito.
Marco Bicchierai, 6 ottobre 1308: la morte di Corso Donati, sito.
Renato Piattoli, Donati, in Enciclopedia Dantesca, 1970, sito.
Simone Valtorta, Dante, poeta scurrile: la tenzone con Forese Donati, settembre 2016, sito.

Immagini

  1. Giovanni Bastianini, Busto di Piccarda Donati, 1855, fonte: Gallerie degli Uffizi.
  2. Gustave Doré, Dante Alighieri, Stazio e Virgilio incontrano Forese Donati, Illustrazione Purgatorio Canto XXIII, 1890.
  3. Miniatura contenuta nella Nova Cronica di Giovanni Villani, Corso Donati fa liberare dei prigionieri politici, XIV secolo, fonte: Wikipedia.
  4. La riserva dei Conti Guidi alla battaglia di Campaldino, fonte.
  5. Raffaello Sorbi, Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso, 1866, fonte: Gallerie degli Uffizi.

Matelda si racconta… – Parte 1

Sono la più enigmatica delle Donne della Commedia. Su di me è stato scritto di tutto. Donna reale, simbolo, allegoria. Non vi prometto di rivelarvi la mia identità, ma vi lascerò alcuni indizi. Dante ha voluto che restassi inaccessibile ai molti, e svelata solo ai pochi.

La custode del Paradiso Terrestre

Quando il Poeta mi raggiunge nel Paradiso Terrestre, ha già attraversato la voragine infernale e scalato la montagna del Purgatorio. Ha vinto gli istinti e riconquistato il libero arbitrio.  Egli entra nell’“antica selva”. Scopre l’Eden nella sua armonia perfetta. Gli uccelli accolgono l’alba intonando il loro canto. La luce del nuovo sole è temperata dagli alberi. Le fronde dolcemente oscillano, mosse da una brezza soave. Erbette, fiori e arboscelli profumano l’aria e colorano i prati. Dante si inoltra nella foresta tanto da non riuscire più a vedere da che parte è entrato. Prosegue e giunge ad un fiume dalle limpidissime onde. Fermatosi, spinge lo sguardo all’altra riva e mi vede. Lo stavo aspettando. 

Matelda e Dante si incontrano

Appena Dante mi vede, il suo volto è incantato dalla meraviglia. Come donna innamorata canto e percorro a lenti passi la riva del fiume. La fine del viaggio in Purgatorio è quasi giunta, ma eventi prodigiosi accadono: prima l’arrivo della processione mistica intorno al carro allegorico trainato dal grifone, poi finalmente l’apparizione di Beatrice. Tutta la potenza dell’antico amore promana dal cuore di Dante. Sopraffatto, il Poeta cerca Virgilio, ma non lo trova più al suo fianco. Alle lacrime per la scomparsa della guida si aggiunge il dolore all’aspro rimprovero di Beatrice, per essersi allontanato dalla dritta via dopo la morte di lei.

Dante prova un rimorso così profondo che perde i sensi e cade svenuto. Quando ritorna in sé, si trova immerso fino alla gola nel fiume Letè. Sono proprio io a sorreggerlo, cingendogli con le braccia la testa e poi tuffandolo sott’acqua. Questo è il compito che devo svolgere, concludendo il percorso delle anime del Purgatorio iniziato con la confessione e la salita attraverso le cornici del monte, sette come i peccati capitali.

Già purificate con il rito del fuoco, le anime necessitano di un’ultima purificazione: l’immersione nel Letè, il fiume che cancella il ricordo dei peccati. Eseguendo gli ordini di Beatrice, accompagno Dante a bere le acque del sacro fiume Eunoè. A quel punto Dante è pronto per salire in Paradiso e con questi celebri versi chiude la cantica del Purgatorio: «rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda / puro e disposto a salir le stelle».

Matelda come Proserpina

È venuto il momento di aggiungere un’altra tessera al mosaico della mia storia. Userò le parole che Dante mi rivolge: “Tu mi fai rimembrar Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera” (Purgatorio XXVIII, vv. 50-51). Ma cosa lo colpisce tanto da rievocare il mito antico della vergine Proserpina, figlia di Cerere, dea della fertilità e dei raccolti? So bene che Dante ammira le Metamorfosi di Ovidio, poeta latino che Dante tanto ammira, descrivono una situazione che avete già letto quando ho iniziato il mio racconto: anche la giovane Proserpina si trova presso un luogo d’acqua – il lago Pergusa – non lontano da Enna, e «un bosco fa da corona alle sue acque e d’ogni lato cinge velando con le fronde le vampe del sole. I rami donano frescura, fiori di vari colori sorgono dall’umida terra: è primavera eterna. In questo bosco gioca Proserpina e coglie viole o candidi gigli e a gara con le sue compagne riempie i canestri e i lembi della veste con gioia di fanciulla». Ecco, la mia condizione è quella di Proserpina prima di essere rapita dal dio degli inferi Plutone.

Il mito

Ovidio così prosegue: «Plutone la vide e subito arse d’amore e la rapì: tanto violenta irruppe la passione». Proserpina è terrorizzata e grida il nome della madre mentre il dio la trascina sotto terra. Tanto candida è la giovane creatura che si addolora che le siano caduti i fiori raccolti nel lembo della tunica. Intanto Cerere, angosciata, cerca invano la figlia per terra e per mare. Il dolore della dea non lascia più germogliare i semi: privati dei frutti della terra, gli uomini sono condannati alla fame. Cerere scopre infine che Proserpina è diventata la «suprema signora del mondo tenebroso, potente sposa del re dell’Averno». E così raggiunge Giove, padre di Proserpina e lo convince a far tornare la figlia nel mondo della luce. Tuttavia, l’ingenua fanciulla, inconsapevole della legge che lega agli inferi chi si pasce del cibo dei morti, aveva già mangiato sette chicchi di melograno. Sarà condannata per sempre al mondo sotterraneo. Giove interviene nella contesa e divide il corso dell’anno in due parti uguali: per sei mesi Proserpina starà con la madre e per sei mesi convivrà con lo sposo. Sulla terra avrà così inizio il ciclo delle stagioni

Tra canti, fiori e profumi…

Il racconto dell’incontro tra me e Dante sulla riva del fiume è riportato con la grazia dello stil novo. «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore / ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti / che soglion esser testimon del core, / vegnati in voglia di trarreti avanti». Vedendomi cantare e cogliere fiori, muovendomi a passo di danza, Dante mi prega di avvicinarmi per sentire le parole del mio canto. Con mosse leggiadre lo raggiungo e alzo lo sguardo. Il poeta ammira incantato i miei occhi, lucenti come quelli di Venere.

Gli rivelo la mia bellezza con dolce sorriso, mentre le mani intrecciano ghirlande coi fiori appena raccolti.  Ora mi premuro di raccontare la mia letizia a Dante – e a Virgilio e Stazio che lo hanno raggiunto – con il salmo Delectasti, un inno di lode a Dio per le bellezze del Creato. Illustro le leggi che governano i fenomeni naturali nel Paradiso Terrestre, come l’origine astrale della brezza che culla la foresta. Quanto ai corsi d’acqua – il fiume Letè che cancella la memoria dei peccati commessi, e l’Eunoè che rafforza il ricordo del bene compiuto – rivelo che sgorgano da una sorgente perenne che scaturisce per volere divino. Gli antichi poeti che cantarono il Parnaso e la mitica età dell’oro ebbero la visione di questo luogo in cui l’uomo fu felice, dove regna un’eterna primavera. Adesso è chiaro perché io son colei che è lieta, come il mio nome, letto al contrario, rivela.

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Bibliografia

Dante Alighieri, Purgatorio, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Grassina, [Bagno a Ripoli], Le Monnier, 2002
Persefone. Variazioni sul mito, a cura di Roberto Deidier, Venezia, Marsilio, 2010
Gianni Vacchelli, Dante e l’iniziazione femminile. Beatrice, Maria e altre “dee”, Alzano Lombardo, Lemma Press, 2020
Marco Santagata, Le donne di Dante, Bologna, Il Mulino, 2021
Edi Minguzzi, Il dizionarietto dantesco: le parole ermetiche della Divina Commedia, Brescia, Scholé, 2021

Sitografia

Nel labirinto della commedia, Le Gemme nel cielo di Venere, https://nellabirintodellacommedia.wordpress.com/

Immagini

  1. Illustrazione del Purgatorio di Massimo Tosi;
  2. Nicolò Barabino, Dante incontra Matelda, 1876 – 1877;
  3. Matelda a Dante, particolare di Ezio Anichini;
  4. Sandro Botticelli, Primavera, 1478-1482;
  5. Dante Gabriel Rossetti, Proserpina, 1855 circa.

Gemma si racconta… – Parte 1

La mia famiglia, i Donati, fu una delle famiglie più numerose e importanti della Firenze medievale. Vissuta da sempre nel quartiere di via del Corso, tra Piazza della Signoria e Piazza San Giovanni, ha mantenuto per anni una certa reputazione perché erede della potente oligarchia fiorentina.

Lo stemma di famiglia

Come ogni famiglia nobile che si rispetti, anche noi avevamo un segno distintivo, una firma: il nostro stemma! A differenza di molti altri della città, il nostro era estremamente semplice: si componeva di due partiti (due campi), uno superiore e uno inferiore, divisi da una linea orizzontale. Questa forma, in araldica, si definisce troncato. I due partiti erano decorati con colori diversi: quello inferiore era in argento e quello superiore in rosso. Ovviamente i colori avevano significati ben precisi, che dovevano rispecchiare anche i caratteri della famiglia. L’utilizzo di un metallo come l’argento, al posto del più classico bianco, simboleggiava il potere economico e allegoricamente la sua purezza d’animo. Il rosso, invece, era legato al sangue versato in battaglia e quindi stava ad indicare il valore e l’audacia della famiglia.

Se mentre camminate per i quartieri di Firenze alzate gli occhi e vi volgete alle pareti di pietra degli antichi edifici, scoprirete una moltitudine di stemmi, simbolo di riconoscimento per tutte le famiglie. Quante storie potrei raccontarvi su quelle famiglie… Ma oggi voglio concentrarmi su altro.

Dante: un marito, un uomo diverso

Molti oramai sanno che Dante non era solo un poeta. Il suo barcamenarsi tra impegni di ogni genere lo portava quasi sempre ad assentarsi dalla vita domestica. Uno dei desideri di Dante, dopotutto, era quello di essere “diverso”, potersi distinguere. Avrebbe fatto carte false pur di appartenere al rango nobile della città. Secondo il pensiero di mio marito, infatti, il ceto nobiliare si sarebbe dovuto occupare solo di studio e poesia, non dovendosi preoccupare di soldi e finanza. Bisogna ammettere che per quanto si impegnasse, Dante non aveva le possibilità di permettersi una vita di agi come sognava.

L’amicizia con Cavalcanti

Il mio caro marito voleva tenere il passo dei suoi amici, come Guido Cavalcanti, erede di una delle famiglie più ricche di Firenze, il quale poteva permettersi feste e incontri intellettuali senza incorrere a perdite patrimoniali. Erano molto amici quei due: condividevano la passione per la politica e l’amore per la poesia. Dante e Guido portavano avanti una nuova idea di poesia che raccontava di un soave innamoramento e della gentilezza della donna vista come un angelo, ma non saranno gli unici. Altri uomini racconteranno di donne, altri uomini racconteranno anche di me…

Sei poeti Toscana da Giorgio Vasari (1511-1574). Da sinistra a destra: Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio e Dante Alighieri e Guido Cavalcanti .

Boccaccio versus Gemma

Tra i molti nomi che vengono ricordati affianco a quello di mio marito, vi è anche quello di Giovanni Boccaccio, illustre autore dell’ancora più illustre Decameron. Non si conobbero mai ma Boccaccio studiò la personalità e la vita di Dante, diventando suo ammiratore, pronto a lodarlo ed esaltarlo quandunque potesse. Ovviamente nella biografia scritta in onore a mio marito, il Trattatello in laude di Dante, non poteva non citare il nostro matrimonio… Io e Dante ci sposammo per volere delle nostre famiglie, non fu una nostra decisione.

Va ammesso che ai nostri tempi era consuetudine far sposare i figli di importanti e abbienti famiglie per trarne vantaggi economici. Su questo argomento, Boccaccio, decise di spendere più parole del dovuto, a parer mio: secondo lui, infatti, Dante era talmente sconfortato dalla consapevolezza di non potersi unire alla sua amata Beatrice, che la sua famiglia decise di farlo sposare con la sottoscritta per porre fine alle sue pene d’amore inconsolabili. Si permise anche di dire che presto la famiglia di Dante si accorse di aver fatto un terribile errore, perché il nostro matrimonio era noioso e poco passionale! Tutto frutto della sua mente fantasiosa, naturalmente! Ma non si fermerà qui Boccaccio, parlerà ancora di me quando racconterà dell’esilio di mio marito, senza menzionare troppo quello che però ho dovuto passare io…

La dote di Gemma

Il nostro matrimonio, quindi, era legato maggiormente al prestigio delle famiglie protagoniste, che ai soldi… Quando veniva sottoscritto l’accordo matrimoniale, la futura moglie doveva avere una dote, ovvero un nucleo di beni che la donna donava come contributo al matrimonio. Nel mio caso la dote fu molto scarsa: poco più di 12 fiorini d’oro. L’ammontare della dote, infatti, veniva calcolata sul patrimonio del giovane sposo ché, in caso di morte, doveva essere in grado di restituirla. Come tutti sanno, Dante venne esiliato da Firenze a causa delle sue scelte politiche. Le conseguenze di ciò ricaddero inevitabilmente anche su me e i nostri quattro figli.

Boccaccio, nel suo Trattatello, racconta di come mi sono dovuta arrangiare dopo la condanna di mio marito: prevedendo che dopo questo evento la nostra casa sarebbe diventata mira di saccheggi e furti, decisi di salvare alcuni beni custoditi in numerosi forzieri e condotti in un luogo segreto e sicuro. Quando cercai di riavere quello che di diritto mi spettava, ossia la mia dote, dovevo presentare alcuni documenti al Comune di Firenze che, nel “trasloco” erano finiti nei forzieri. La vera sorpresa fu quando mi ritrovai per le mani i sonetti di Dante! I primi sette canti della Divina Commedia! Alcuni suoi amici si affrettarono a farglieli avere, così che potesse continuare a scrivere la sua opera.


Ah! Alla fine l’ho riavuta eh la mia dote!

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Bibliografia e Sitografia

M. Del Pizzo, L. Borgia, G. C. Bascapè. Insegne e simboli: araldica pubblica e privata, medievale e moderna. Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1999.
M. Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori Editore S.p.A., Milano 2020.
M. Santagata, Le donne di Dante, Il Mulino, Bologna 2021

Stemma della Famiglia Donati, https://www.cognomix.it/stemma-famiglia/donati
Cognomi:Donati, https://www.heraldrysinstitute.com/lang/it/cognomi/Donati/idc/5395/
Wikipedia, Giovanni Boccaccio, https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Boccaccio
Vitamine Vaganti, LUI, LEI E L’ALTRA: BREVE STORIA TRISTE DI GEMMA DONATI, https://vitaminevaganti.com/2020/02/29/lui-lei-e-laltra-breve-storia-triste-di-gemma-donati/
Il Sussidiario, GEMMA DONATI, CHI ERA MOGLIE DI DANTE? Ricostruzione a partire dai documenti storici, https://www.ilsussidiario.net/news/gemma-donati-chi-era-moglie-di-dante-ricostruzione-a-partire-dai-documenti-storici/2148188/ 

Francesca si racconta… – Parte 1

Sono Francesca, forse la donna più famosa della Divina Commedia. Molti mi conoscono come Francesca da Rimini ma non è quella la mia città: Rimini è il luogo dove trovai l’amore e la morte. Io fui nataa Ravenna, dove il delta del grande fiume Po sfocia nel Mar Adriatico. Dante non poteva saperlo mentre scriveva il suo capolavoro ma proprio lì, su la marina dove ‘l Po discende, contrasse la malaria e incontrò la morte nella mia città natale nel settembre del 1321, proprio mentre era ospite di un mio discendente, Guido Novello da Polenta.

Guido il Vecchio decise la sorte della figlia

Mio padre era Guido da Polenta detto Guido il Vecchio, signore di Ravenna. La mia città natale si trovava spesso in rivalità con la città di Rimini così mio padre si accordò con Malatesta da Verrucchio, signore della città, per sancire la pace tra le due signorie attraverso un prestigioso matrimonio: io, la giovane Francesca da Polenta, avrei sposato il primogenito di Malatesta. Quando siglarono il patto ero solo una bambina e ovviamente nessuno chiese il mio parere a riguardo: i matrimoni d’amore non erano contemplati per i nobili, erano solo contratti per favorire alleanze politiche ed economiche.
Forse mio padre sperava che col tempo avrei imparato a voler bene a mio marito, chissà… Di certo non sapeva di aver firmato la mia condanna a morte.

Fonte immagini: Wikipedia.

Vittima di un inganno

Quando venne celebrato il matrimonio avevo solo 15 anni e non avevo idea di chi fosse il mio sposo. Arrivata in chiesa vidi un uomo bellissimo attendermi all’altare: Paolo Malatesta “il Bello”. Me ne innamorai perdutamente, credetti di essere stata baciata dalla fortuna, pensavo che il mio sarebbe stato un matrimonio felice.
Soltanto dopo scoprii di essere stata ingannata: egli era solo il procuratore matrimoniale del fratello maggiore Giovanni, detto Gianciotto (Johannes Zoctus, ovvero Giovanni lo zoppo), un uomo molto più anziano di me, dall’aspetto sgraziato e dai modi rozzi. Ed io, convinta di sposare Paolo, mi ritrovai mio malgrado ad essere la sventurata moglie di Gianciotto.
Ero disperata ma non avevo scelta, la mia sorte fu decisa da altri senza possibilità di replica. Amare Gianciotto era per me impossibile. Gli diedi anche una figlia, Concordia, ma il mio amore a prima vista per Paolo non si spense mai. Finché un giorno…

Galeotto fu… e più non leggemmo avante

Dante Gabriel Rossetti, Paolo e Francesca da Rimini (1862).

Io e Paolo ci trovavamo nel bellissimo castello di Gradara, dove spesso ci intrattenevamo discutendo di letteratura cortese.
Un giorno eravamo intenti a leggere il Lancelot, un romanzo cavalleresco in lingua francese. Si narrava di come Ginevra, la moglie di re Artù, si fosse invaghita di Lancillotto, il più valoroso dei cavalieri della Tavola Rotonda, proprio al servizio di re Artù.
I due si incontrarono in un boschetto grazie a Galahaut, un amico di Lancillotto, che fece da intermediario e favorì il loro amore.
Per noi galeotto fu il libro e chi lo scrisse: leggendo quel romanzo, arrivati al momento del bacio tra Lancillotto e Ginevra, Paolo prese coraggio e, tutto tremante, mi baciò sulla bocca. E così, quel giorno più non vi leggemmo avante. Mai più.

Amor condusse noi ad una morte…

Soli eravamo e sanza alcun sospetto, o almeno così credevamo. In realtà eravamo spiati dal fratello minore, Malatestino, che corse ad avvertire mio marito del tradimento. Gianciotto sguainò la spada e con un sol colpo finì entrambi.
Amor condusse noi ad una morte, anche dell’anima facendoci finire all’Inferno non avendo provato pentimento per il nostro amore sincero.
Da allora siamo costretti vagare insieme per l’eternità, sospinti dalla tempesta che travolge i lussuriosi come noi, che in vita si erano fatti travolgere dalla passione.

Altro destino quello di Gianciotto

Gianciotto, invece, era atteso nelle profondità dell’Inferno, nel Cocito, il lago ghiacciato in cui è intrappolato Lucifero in persona. Precisamente nella Caina, dove sono puniti i traditori dei parenti, un peccato molto più grave della nostra semplice lussuria.
Fu all’Inferno che incontrammo Dante che provò pietà per questa vicenda dove amore e morte si intrecciano indissolubilmente. E cadde come corpo morto cade.

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Bibliografia e sitografia:

M. Santagata, Le donne di Dante, 2021
A. Cazzullo, A riveder le stelle, 2020
Web Gallery of Art https://www.wga.hu/html_m/i/ingres/07ingres.html




Beatrice si racconta… – Parte 1

Ancora oggi sulle pareti esterne che danno sull’attuale via del Corso, di quella che è stata la mia casa da fanciulla, da ragazza, si può ammirare lo stemma della mia famiglia, i Portinari, e la celebre terzina attraverso cui Dante ha descritto la mia apparizione nel Purgatorio.

Vita medievale

Il nostro palazzo si trovava nel cuore del quartiere di San Pier Maggiore, dove abitavano le famiglie magnatizie  di Firenze. E anche se non erano magnatizie, erano comunque molto influenti: oltre a noi Portinari, avevano case nel quartiere anche i Cerchi, i Donati… 
Le famiglie rivali vivevano gomito a gomito: divise dalle lotte politiche, ma unite nel quartiere. Vivevano vicini a noi anche gli Alighieri. Era un quartiere piuttosto movimentato il nostro! Ma le giovani come me non potevano uscire: venivamo preparate a diventare donne di casa e lì dovevamo stare. Attendevamo, allora, con gioia l’unico momento in cui ci era permesso di uscire per strada: era il giorno di festa, si andava in chiesa! 
Nell’attesa, ogni tanto mi affacciavo a una delle finestre: quante volte  ho visto passare il giovane Dante… assorto nei suoi pensieri poetici, camminava per strada… E lui avrà mai rivolto lo sguardo alla mia finestra per ammirare i miei occhi?

Il padre di Beatrice

Mio padre era Folco Portinari. Egli rivestì cariche pubbliche importanti: fu, infatti, più volte priore, ma soprattutto fu grazie alla sua generosità che fu possibile la fondazione dell’ospedale di Santa Maria Nuova, l’ospedale del centro di Firenze. La mia inseparabile nutrice, Monna Tessa, ispirò mio padre nel finanziare la costruzione. La cara donna è ricordata, anzi venerata,  come la madre delle Oblate ospedalinghe, cioè di quelle donne che si offrono e santificano nell’assistenza dei malati.

Dante e Beatrice si incontrano

Il primo incontro tra me e Dante avvenne quando avevamo solo nove anni. Mio padre aveva organizzato una festa, nel giorno di Calendimaggio. Erano invitati tutti i rappresentanti delle famiglie più importanti del quartiere. Le donne non potevano partecipare a questa feste, ma gli uomini potevano portare con sé i figli e anche le figlie. Così potetti partecipare anche io. In mezzo alla gente, ai mille colori dei vestiti, in mezzo alla musica e al chiacchiericcio, Dante vide me e il mio vestito rosso. Fu amore a prima vista. E lui si bloccò, non parlava non si muoveva, solamente tremava. Erano i segni dell’amore...

La Chiesa di Santa Margherita dei Cerchi

Ma chissà quante altre volte ci saremo incontrati Dante ed io a messa, proprio nella Chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, che fu sotto il patronato di famiglie importanti, come i Cerchi, di cui ancora oggi porta il nome, ma anche dei Donati e degli Adimari. 
Si tratta di una chiesa molto antica, ricordata per la prima volta addirittura nel 1032 che ci mostra ancora oggi quello che fu lo stile romanico in architettura. Nonostante il nome con cui è conosciuta oggi, essa in realtà è dedicata a Santa Margherita di Antiochia. Margherita, la Santa che, dopo aver rifiutato di diventare la concubina del prefetto Olibrio, venne tormentata dal Demonio che le apparve sotto forma di orribile dragone, per poi morire martire ad Antiochia nel IV secolo d.C.

La nostra Beatrice nella Chiesa di Santa Margherita dei Cerchi durante il tour Il quartiere di Dante con le Donne della Commedia.

Questo luogo mi è così caro per vari motivi, primo fra tutti perché fu la chiesa dove mi recavo a messa durante gli anni della mia giovinezza, poi perché qui troviamo il calco della sepoltura della mia inseparabile nutrice, Monna Tessa. E ancora, in Santa Margherita de’ Cerchi è stato celebrato il mio matrimonio con Simone de’ Bardi. Oggi, però, essa è chiamata la chiesa di Dante e Beatrice, la chiesa degli innamorati. Gli innamorati di tutto il mondo, infatti, si recano proprio in questa chiesa per lasciare dei biglietti, dei messaggi. Li lasciano in una cesta, vicino alla placca commemorativa posta in mio onore e chiedono che anche il loro amore diventi così straordinario come quello che Dante ha provato per me. Un amore così intenso che gli ha permesso di scrivere cose che nessun uomo aveva mai scritto per nessuna donna.

Beatrice de’ Bardi

Vi ho raccontato tante cose, ma ancora non vi ho parlato di ciò che è stata la mia vita dopo il mio matrimonio con Simone de’ Bardi, il cavaliere Simone de’ Bardi. Con tale unione, il mio prudente padre Folco aveva cercato di legarsi ai Bardi, acerrimi donateschi. E io entravo, così, a far parte della più aristocratica élite di Firenze.
Dopo il matrimonio mi trasferii nella dimora di mio marito, Oltrarno, ai piedi della collina di San Miniato. Lì vicino c’era, e c’è tutt’oggi, una piccola chiesa, detta Santa Lucia dei Magnoli. Lucia è la Santa protettrice di tutti coloro che hanno disturbi alla vista, di cui soffriva anche Dante. Mi sono sempre chiesta se fosse un segno di ringraziamento nei confronti di Santa Lucia il fatto che Dante la elevi, nella sua Commedia, a ruolo di intermediaria tra la Vergine Maria e me, oppure che non sia stato un omaggio proprio a me, che nella chiesa dedicata alla Santa avevo pregato più volte. Chissà se mai troverò una risposta a questa mia domanda. Sta di fatto che proprio in quegli anni, precisamente 9 anni dopo il nostro primo incontro, lo sguardo di Dante incontrò nuovamente i miei occhi. Anche in quella occasione tutta la forza del sentimento che Dante provava per me, si espresse con i soliti segni dell’amore: quando lo chiamai per nome, rimase bloccato, tremava e non riuscì neanche a ricambiare il saluto…

Henry Holiday, Dante e Beatrice, 1884. Fonte: Wikipedia

Ma troppo grande, ormai, era la distanza tra la mia posizione sociale e quella di Dante, rampollo di una famiglia di status così mediocre che, dal 1282 (anno di istituzione del priorato) al 1300, ha espresso un solo priore, Dante appunto. Mio marito, invece, ha ricoperto, in varie città, cariche pubbliche di prestigio: capitano del popolo a Orvieto, podestà a Volterra, capitano del popolo a Prato… Probabilmente lì, a Prato appunto, egli si trovava quando io, nel 1290, passavo dalla vita terrena a quella eterna

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Bibliografia e sitografia

Bargellini P., La splendida storia di Firenze. Da Giulio Cesare a Dante, Vol. 1, Firenze, Vallecchi, 1980
Barducci M., Gaggini F., a cura di, Le Oblate di Firenze: 700 anni al servizio del corpo e della mente, Comune di Firenze Assessorato alla Cultura, Firenze, Il Bandino, 2008
Santagata M., Come donna innamorata, Guanda editore, 2015
Santagata M., Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, Mondadori, 2020
Catalogo Fondazione Zeri, http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/ 
Sito web del Gruppo Archeologico Fiorentino, http://gruppoarcheologicofiorentino.blogspot.com/2015/07/chiesa-di-santa-margherita-dei-cerchi-e.html?m=1 
I luoghi della fede, a cura di Regione Toscana, Giunta Regionale, http://web.rete.toscana.it/Fede/ricerca.jsp?lingua=italiano 
Repertorio delle Architetture Civili di Firenze a cura di Claudio Paolini, http://www.palazzospinelli.org/architetture/scheda.asp?ID=354
Sotto la Polvere del Tempo, Blog del Gruppo Archeologico Fiorentino, http://gruppoarcheologicofiorentino.blogspot.com/

Immagini

1. Sopra lo stemma della famiglia dei Portinari, sotto la lapide dantesca in cui il Poeta, nella Divina Commedia, racconta di Beatrice. Fonte: Wikipedia.
2. Antica facciata dell’ospedale prima del completamento del loggiato; dipinto di Fabio Borbottoni, 1820-1902. Fonte: Wikipedia.

Bella degli Abati, la mamma di Dante. La figura materna nella Commedia

Poche sono le informazioni biografiche relative all’infanzia di Dante Alighieri, nonostante la fama da lui poi raggiunta come poeta della Divina Commedia e padre della lingua italiana. Immaginate, quindi, quanto scarne possano essere le informazioni che ci sono giunte sulla sua mamma Bella.

La famiglia degli Abati

Stemma della famiglia degli Abati.
Fonte: Archivio di Stato di Firenze.

La madre di Dante era infatti, con ogni probabilità, Gabriella di Durante degli Abati, appartenente a una ricca e potente famiglia che abitava nello stesso quartiere degli Alighieri. Ciò spiegherebbe sia il nome del sommo poeta, che avrebbe così ereditato il nome del nonno paterno, sia il perché Durante degli Abati si fece garante di prestiti concessi ai fratelli Alighieri, Dante e Francesco. Gli Abati erano Ghibellini e gli Alighieri, come è noto, erano invece dei Guelfi. Ma ciò non deve stupirci poiché molto spesso i matrimoni fra le famiglie avversarie si combinavano proprio per porre una piccola tregua alle contese.

Il piccolo Dante Alighieri però rimase orfano della madre quando era ancora in tenera età e quando era poco più che decenne, anche del padre. Dante non racconta praticamente niente della sua infanzia, per cui non c’è neanche dato conoscere quale fu il rapporto con la seconda moglie del padre, Lapa Cialuffi. 

La figura della madre nella Commedia

Anche nella Divina Commedia, Dante accenna solo poche volte e vagamente, a se stesso e ai propri familiari. In particolare non nomina mai direttamente la propria madre. Ma il termine “mamma” compare certamente tra le terzine dantesche che descrivono il viaggio del poeta pellegrino nei tre mondi ultraterreni. Nel Purgatorio, esattamente nel V girone, Dante, con la sua guida Virgilio, incontra il poeta latino Stazio. L’ autore della Tebaide e della Achilleide, vissuto nel I secolo d.C. dopo essersi presentato, inizia una commossa esaltazione di Virgilio e della sua opera, affermando che l’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice poetando” (Purg. XXI, 97-98). Stazio ci sta dicendo che l’ Eneide non solo alimentò ed educò il suo spirito poetico, ma fu una vera e propria madre che generò in lui l’amore per la poesia. Dante allora rivela a Stazio il nome della sua guida, Virgilio ed i tre poeti continuano il viaggio sul monte del Purgatorio, fino a quando, davanti a loro appare una processione che avanza lentamente verso il fiume Letè: siamo nel Paradiso Terrestre. In mezzo a una nuvola di fiori, vestita di rosso, coperta di un manto verde, con il capo cinto da un velo bianco, sostenuto da un ramo di ulivo, appare davanti agli occhi di Dante, l’amata Beatrice. Il poeta pellegrino, smarrito dalla forza dell’ amore che in quel momento lo prende, si volge verso Virgilio, accorgendosi però che il Maestro lo ha lasciato. Il sommo ci descrive quel momento così: 

“volsimi alla sinistra col rispitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto”

(Purg. XXX, 44-45).

Quindi Dante si paragona ad un bambino che corre dalla mamma quando ha paura o prova dolore esprimendo con estrema semplicità, tutto il suo affetto per “Virgilio dolcissimo patre” (Purg. XXX, 50).

Maria: la madre delle madri

Ed ecco che giungiamo nel Paradiso, luogo in cui la figura della madre delle madri, la Vergine Maria, è celebrata. Ora è Beatrice la guida di Dante. Una volta giunti nei pressi dell’Empireo appare davanti a loro la figura della Madre di Cristo, circondata dagli Apostoli. L’arcangelo Gabriele innalza un inno di lode a Maria, imitato da tutti i beati. Dopodiché ella ascende all’Empireo e mentre ella si allontana verso l’alto, i santi, per manifestare tutto il loro affetto, si protendono, si allungano verso l’alto, verso di lei. Dante li paragona a dei bambini che cercano di raggiungere la propria mamma tendendo le braccia: 

“E come fantolin che ‘nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ‘l latte prese,
per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma”

(Par. XXIII, 121-123). 


Anche all’Inferno

Ma il termine “mamma” lo troviamo anche nell’Inferno. Siamo nel cerchio dei traditori, nella zona detta Antenora, dove sono puniti i traditori della patria. Dante dimostra un totale e freddo distacco di fronte alla sofferenza di queste anime. Tale distacco trova forma nel dato espressivo utilizzato dal poeta nella Commedia proprio da questo canto in poi (“le rime aspre e ciocche,/ come si converrebbe al tristo buco/ sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce”, Inf. XXXII, 1-3). Descrivere ciò che il poeta vedrà nelle Malebolge, non è, infatti, 

“impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo”
(Inf. XXXII, 7-9). 

Non si tratta, cioè, di un’impresa da prendere alla leggera descrivere il fondo dell’Inferno, creduto allora il centro della Terra e quindi il centro di tutto l’universo. Non è questa una visione che si può descrivere agli altri con una lingua infantile, dei bimbi piccoli che imparano a dire mamma e babbo.

Dante incontra un suo antenato

Avanzando sulla superficie ghiacciata del Cocito, Dante colpisce con il piede, una delle teste che da essa emergono. Il dannato chiede il motivo di tanta crudeltà. Il poeta vorrebbe conoscere il nome del dannato, ma questi non vuole rivelarglielo. Dante allora lo prende “per la cuticagna” (Inf. XXXII, 97). Dante, cioè lo afferra per i capelli e gli strappa diverse ciocche. Allora un altro dannato che appaga il desiderio del pellegrino rivelando il nome del traditore: è Bocca degli Abati, colui che a Monteaperti recise, con un colpo di spada, la mano del porta insegna della cavalleria fiorentina, provocando la sanguinosa sconfitta dei guelfi di Firenze contro i ghibellini di Siena. Un Abati, quindi, membro della famiglia della mamma di Dante, aveva provocato la tremenda e celebre sconfitta.

Gustave Doré, Dante incontra Bocca degli Abati.

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Bibliografia

Bargellini P., La splendida storia di Firenze. Da Giulio Cesare a Dante, Vol. 1, Firenze, Vallecchi, 1980
Santagata M., Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, Mondadori, 2020Dante Alighieri, La Divina Commedia, con prefazione di Giuseppe Ungaretti, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1965

La tomba di Dante – Ravenna

In occasione del VII centenario della morte di Dante Alighieri moltissime persone si recano, come in una sorta di pellegrinaggio, ad omaggiare la tomba del Sommo Poeta a Ravenna. Dante, infatti, trascorse gli ultimi giorni della sua vita proprio in questa città, ospite presso la corte di Guido Novello da Polenta, nipote della celeberrima Francesca di cui Dante racconta la triste vicenda nel canto V dell’Inferno. Recatosi a Venezia nel 1321 per conto del Signore della città, sulla via del ritorno attraversò le paludose Valli di Comacchio e contrasse la malaria, che lo portò alla morte la notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321.

Ravenna si dedica a Dante

La tomba odierna, adiacente alla Chiesa di San Francesco, nella quale vennero celebrati i funerali del Sommo Poeta, è una struttura neoclassica chiamata affettuosamente dai cittadini “la zuccheriera” per la sua forma e le dimensioni minute. Fu realizzata nel 1780-81 dall’architetto Camillo Morigia, ultimo discendente di una nobile famiglia ravennate, su commissione del cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga, come ricorda il suo stemma che campeggia sopra l’ingresso. Il nuovo mausoleo ha sostituito il precedente sepolcro quattrocentesco, fatto costruire dall’allora podestà di Ravenna, il veneziano Bernardo Bembo. Costui nel 1483 commissionò allo scultore Pietro Lombardo il rilievo che si trova ancor oggi sopra il sarcofago marmoreo, con l’epitaffio latino datato 1327 di Bernardo Canaccio che recita:

“IURA MONARCHIE SUPEROS PHLAEGETONTA LACUSQUE / LUSTRANDO CECINI FATA VOLVERUNT QUOUSQUE SED QUIA PARS CESSIT MELIORIBUS HOSPITA CASTRIS / ACTOREMQUE SUUM PETIIT FELICIOR ASTRIS HIC CLAUDOR DANTES PATRIIS EXTORRIS AB ORIS / QUEM GENUIT PARVI FLORENTIA MATER AMORIS”

ovvero

I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte visitando cantai finché volsero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, (io) Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore.

Firenze vuole indietro il suo Sommo Poeta, ma…

Il sarcofago, tuttavia, è stato vuoto per secoli. La vicenda che riguarda le spoglie di Dante, infatti, è alquanto avvincente: la città di Firenze, fiera di aver dato i natali al Sommo Poeta, ha più volte reclamato i suoi resti, che Ravenna non ha mai voluto cedere, facendo nascere una vera e propria disputa sulle ossa di Dante
Nel 1519 Firenze fu quasi sul punto di raggiungere il suo scopo, per mezzo di una delegazione medicea mossa da una petizione sottoscritta persino da Michelangelo, che si era offerto volontario per la realizzazione del monumento funebre che avrebbe dovuto accogliere il corpo di Dante. Infatti, Papa Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, aveva autorizzato di traslare i resti del Poeta da Ravenna a Firenze, per riaccoglierlo dopo secoli nella sua città natale dalla quale era stato esiliato. Ma al momento dell’apertura del sarcofago si scoprì che era vuoto: i frati francescani avevano prelevato dal sepolcro la cassettina contenente le ossa, facendo un buco nel muro retrostante, per impedire ai fiorentini di trafugarle. Per secoli le spoglie di Dante furono custodite gelosamente dai frati francescani, celate in un nascondiglio che soltanto loro conoscevano.

Il ritrovamento delle spoglie

Vennero ritrovate casualmente in una parete del chiostro del Quadrarco di Braccioforte, antico oratorio del convento adiacente, il 27 maggio 1865, durante le preparazioni delle cerimonie di commemorazione del VI centenario della nascita di Dante: durante i lavori un operaio abbatté una porta murata e rinvenne una cassetta che portava la scritta “DANTIS OSSA A ME FRA ANTONIO SANTI HIC POSITA ANNO 1677 DIE 18 OCTOBRIS” ovvero: “Queste le ossa di Dante da me collocate in data 18 ottobre 1677”, probabilmente nascoste in occasione della soppressione del convento francescano. Fu un giovane studente, Anastasio Matteucci, che intuì l’immenso valore di quella piccola cassettina di legno e la salvò dalla distruzione.

Un nuovo nascondiglio

Da allora le spoglie di Dante vennero ricollocate nel sarcofago, ma furono nuovamente nascoste per un breve periodo durante la seconda Guerra Mondiale, dal 23 marzo del 1944 al 19 dicembre 1945, sotto un tumulo di terra, per proteggerle dai bombardamenti nonché dalle mire dei soldati nazisti che avevano intenzione di portarle in Germania, come avevano fatto per innumerevoli opere d’arte.

Fortunatamente i resti del Sommo Poeta sono sani e salvi ed oggi, a 700 anni dalla sua dipartita, Dante può finalmente riposare in pace.

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Bibliografia:

G. Mesini, La tomba e le ossa di Dante, 1965
M. Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, 2012
A. Barbero, Dante, 2020

Sitografia:
Meraviglie: la tomba di Dante, condotto da Alberto Angela, 2019
Tomba di Dante Alighieri, Ravenna turismo – sito ufficiale di informazione turistica Comune di Ravenna.