Francesca si racconta… – Parte 1

Sono Francesca, forse la donna più famosa della Divina Commedia. Molti mi conoscono come Francesca da Rimini ma non è quella la mia città: Rimini è il luogo dove trovai l’amore e la morte. Io fui nataa Ravenna, dove il delta del grande fiume Po sfocia nel Mar Adriatico. Dante non poteva saperlo mentre scriveva il suo capolavoro ma proprio lì, su la marina dove ‘l Po discende, contrasse la malaria e incontrò la morte nella mia città natale nel settembre del 1321, proprio mentre era ospite di un mio discendente, Guido Novello da Polenta.

Guido il Vecchio decise la sorte della figlia

Mio padre era Guido da Polenta detto Guido il Vecchio, signore di Ravenna. La mia città natale si trovava spesso in rivalità con la città di Rimini così mio padre si accordò con Malatesta da Verrucchio, signore della città, per sancire la pace tra le due signorie attraverso un prestigioso matrimonio: io, la giovane Francesca da Polenta, avrei sposato il primogenito di Malatesta. Quando siglarono il patto ero solo una bambina e ovviamente nessuno chiese il mio parere a riguardo: i matrimoni d’amore non erano contemplati per i nobili, erano solo contratti per favorire alleanze politiche ed economiche.
Forse mio padre sperava che col tempo avrei imparato a voler bene a mio marito, chissà… Di certo non sapeva di aver firmato la mia condanna a morte.

Fonte immagini: Wikipedia.

Vittima di un inganno

Quando venne celebrato il matrimonio avevo solo 15 anni e non avevo idea di chi fosse il mio sposo. Arrivata in chiesa vidi un uomo bellissimo attendermi all’altare: Paolo Malatesta “il Bello”. Me ne innamorai perdutamente, credetti di essere stata baciata dalla fortuna, pensavo che il mio sarebbe stato un matrimonio felice.
Soltanto dopo scoprii di essere stata ingannata: egli era solo il procuratore matrimoniale del fratello maggiore Giovanni, detto Gianciotto (Johannes Zoctus, ovvero Giovanni lo zoppo), un uomo molto più anziano di me, dall’aspetto sgraziato e dai modi rozzi. Ed io, convinta di sposare Paolo, mi ritrovai mio malgrado ad essere la sventurata moglie di Gianciotto.
Ero disperata ma non avevo scelta, la mia sorte fu decisa da altri senza possibilità di replica. Amare Gianciotto era per me impossibile. Gli diedi anche una figlia, Concordia, ma il mio amore a prima vista per Paolo non si spense mai. Finché un giorno…

Galeotto fu… e più non leggemmo avante

Dante Gabriel Rossetti, Paolo e Francesca da Rimini (1862).

Io e Paolo ci trovavamo nel bellissimo castello di Gradara, dove spesso ci intrattenevamo discutendo di letteratura cortese.
Un giorno eravamo intenti a leggere il Lancelot, un romanzo cavalleresco in lingua francese. Si narrava di come Ginevra, la moglie di re Artù, si fosse invaghita di Lancillotto, il più valoroso dei cavalieri della Tavola Rotonda, proprio al servizio di re Artù.
I due si incontrarono in un boschetto grazie a Galahaut, un amico di Lancillotto, che fece da intermediario e favorì il loro amore.
Per noi galeotto fu il libro e chi lo scrisse: leggendo quel romanzo, arrivati al momento del bacio tra Lancillotto e Ginevra, Paolo prese coraggio e, tutto tremante, mi baciò sulla bocca. E così, quel giorno più non vi leggemmo avante. Mai più.

Amor condusse noi ad una morte…

Soli eravamo e sanza alcun sospetto, o almeno così credevamo. In realtà eravamo spiati dal fratello minore, Malatestino, che corse ad avvertire mio marito del tradimento. Gianciotto sguainò la spada e con un sol colpo finì entrambi.
Amor condusse noi ad una morte, anche dell’anima facendoci finire all’Inferno non avendo provato pentimento per il nostro amore sincero.
Da allora siamo costretti vagare insieme per l’eternità, sospinti dalla tempesta che travolge i lussuriosi come noi, che in vita si erano fatti travolgere dalla passione.

Altro destino quello di Gianciotto

Gianciotto, invece, era atteso nelle profondità dell’Inferno, nel Cocito, il lago ghiacciato in cui è intrappolato Lucifero in persona. Precisamente nella Caina, dove sono puniti i traditori dei parenti, un peccato molto più grave della nostra semplice lussuria.
Fu all’Inferno che incontrammo Dante che provò pietà per questa vicenda dove amore e morte si intrecciano indissolubilmente. E cadde come corpo morto cade.

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Bibliografia e sitografia:

M. Santagata, Le donne di Dante, 2021
A. Cazzullo, A riveder le stelle, 2020
Web Gallery of Art https://www.wga.hu/html_m/i/ingres/07ingres.html




Bella degli Abati, la mamma di Dante. La figura materna nella Commedia

Poche sono le informazioni biografiche relative all’infanzia di Dante Alighieri, nonostante la fama da lui poi raggiunta come poeta della Divina Commedia e padre della lingua italiana. Immaginate, quindi, quanto scarne possano essere le informazioni che ci sono giunte sulla sua mamma Bella.

La famiglia degli Abati

Stemma della famiglia degli Abati.
Fonte: Archivio di Stato di Firenze.

La madre di Dante era infatti, con ogni probabilità, Gabriella di Durante degli Abati, appartenente a una ricca e potente famiglia che abitava nello stesso quartiere degli Alighieri. Ciò spiegherebbe sia il nome del sommo poeta, che avrebbe così ereditato il nome del nonno paterno, sia il perché Durante degli Abati si fece garante di prestiti concessi ai fratelli Alighieri, Dante e Francesco. Gli Abati erano Ghibellini e gli Alighieri, come è noto, erano invece dei Guelfi. Ma ciò non deve stupirci poiché molto spesso i matrimoni fra le famiglie avversarie si combinavano proprio per porre una piccola tregua alle contese.

Il piccolo Dante Alighieri però rimase orfano della madre quando era ancora in tenera età e quando era poco più che decenne, anche del padre. Dante non racconta praticamente niente della sua infanzia, per cui non c’è neanche dato conoscere quale fu il rapporto con la seconda moglie del padre, Lapa Cialuffi. 

La figura della madre nella Commedia

Anche nella Divina Commedia, Dante accenna solo poche volte e vagamente, a se stesso e ai propri familiari. In particolare non nomina mai direttamente la propria madre. Ma il termine “mamma” compare certamente tra le terzine dantesche che descrivono il viaggio del poeta pellegrino nei tre mondi ultraterreni. Nel Purgatorio, esattamente nel V girone, Dante, con la sua guida Virgilio, incontra il poeta latino Stazio. L’ autore della Tebaide e della Achilleide, vissuto nel I secolo d.C. dopo essersi presentato, inizia una commossa esaltazione di Virgilio e della sua opera, affermando che l’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice poetando” (Purg. XXI, 97-98). Stazio ci sta dicendo che l’ Eneide non solo alimentò ed educò il suo spirito poetico, ma fu una vera e propria madre che generò in lui l’amore per la poesia. Dante allora rivela a Stazio il nome della sua guida, Virgilio ed i tre poeti continuano il viaggio sul monte del Purgatorio, fino a quando, davanti a loro appare una processione che avanza lentamente verso il fiume Letè: siamo nel Paradiso Terrestre. In mezzo a una nuvola di fiori, vestita di rosso, coperta di un manto verde, con il capo cinto da un velo bianco, sostenuto da un ramo di ulivo, appare davanti agli occhi di Dante, l’amata Beatrice. Il poeta pellegrino, smarrito dalla forza dell’ amore che in quel momento lo prende, si volge verso Virgilio, accorgendosi però che il Maestro lo ha lasciato. Il sommo ci descrive quel momento così: 

“volsimi alla sinistra col rispitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto”

(Purg. XXX, 44-45).

Quindi Dante si paragona ad un bambino che corre dalla mamma quando ha paura o prova dolore esprimendo con estrema semplicità, tutto il suo affetto per “Virgilio dolcissimo patre” (Purg. XXX, 50).

Maria: la madre delle madri

Ed ecco che giungiamo nel Paradiso, luogo in cui la figura della madre delle madri, la Vergine Maria, è celebrata. Ora è Beatrice la guida di Dante. Una volta giunti nei pressi dell’Empireo appare davanti a loro la figura della Madre di Cristo, circondata dagli Apostoli. L’arcangelo Gabriele innalza un inno di lode a Maria, imitato da tutti i beati. Dopodiché ella ascende all’Empireo e mentre ella si allontana verso l’alto, i santi, per manifestare tutto il loro affetto, si protendono, si allungano verso l’alto, verso di lei. Dante li paragona a dei bambini che cercano di raggiungere la propria mamma tendendo le braccia: 

“E come fantolin che ‘nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ‘l latte prese,
per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma”

(Par. XXIII, 121-123). 


Anche all’Inferno

Ma il termine “mamma” lo troviamo anche nell’Inferno. Siamo nel cerchio dei traditori, nella zona detta Antenora, dove sono puniti i traditori della patria. Dante dimostra un totale e freddo distacco di fronte alla sofferenza di queste anime. Tale distacco trova forma nel dato espressivo utilizzato dal poeta nella Commedia proprio da questo canto in poi (“le rime aspre e ciocche,/ come si converrebbe al tristo buco/ sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce”, Inf. XXXII, 1-3). Descrivere ciò che il poeta vedrà nelle Malebolge, non è, infatti, 

“impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo”
(Inf. XXXII, 7-9). 

Non si tratta, cioè, di un’impresa da prendere alla leggera descrivere il fondo dell’Inferno, creduto allora il centro della Terra e quindi il centro di tutto l’universo. Non è questa una visione che si può descrivere agli altri con una lingua infantile, dei bimbi piccoli che imparano a dire mamma e babbo.

Dante incontra un suo antenato

Avanzando sulla superficie ghiacciata del Cocito, Dante colpisce con il piede, una delle teste che da essa emergono. Il dannato chiede il motivo di tanta crudeltà. Il poeta vorrebbe conoscere il nome del dannato, ma questi non vuole rivelarglielo. Dante allora lo prende “per la cuticagna” (Inf. XXXII, 97). Dante, cioè lo afferra per i capelli e gli strappa diverse ciocche. Allora un altro dannato che appaga il desiderio del pellegrino rivelando il nome del traditore: è Bocca degli Abati, colui che a Monteaperti recise, con un colpo di spada, la mano del porta insegna della cavalleria fiorentina, provocando la sanguinosa sconfitta dei guelfi di Firenze contro i ghibellini di Siena. Un Abati, quindi, membro della famiglia della mamma di Dante, aveva provocato la tremenda e celebre sconfitta.

Gustave Doré, Dante incontra Bocca degli Abati.

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Bibliografia

Bargellini P., La splendida storia di Firenze. Da Giulio Cesare a Dante, Vol. 1, Firenze, Vallecchi, 1980
Santagata M., Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, Mondadori, 2020Dante Alighieri, La Divina Commedia, con prefazione di Giuseppe Ungaretti, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1965

Dante, gli Ubaldini e il Mugello

Nel XIII secolo nel Mugello, la vasta valle a nord di Firenze, governò la famiglia feudale degli Ubaldini. Essa era signora anche di molti luoghi al di là della Toscana, verso la Romagna. Dunque, possedendo territori e beni lungo i due versanti dell’Appennino, riusciva a controllare comodamente le vie di comunicazione e i luoghi più strategici tra il capoluogo toscano e Bologna[1].

La proprietà nel Mugello era molto vasta: gli Ubaldini controllavano i principali paesi della zona, ovvero gli odierni Vicchio, Borgo San Lorenzo, Scarperia e San Piero a Sieve, Barberino di Mugello fino a Firenzuola. Paesi ancora oggi ricchi di storia e cultura, circondati da bellissimi panorami e protettori di antiche costruzioni, come chiese e castelli.

Il Castello di Montaccianico

Per esempio, a Sant’Agata, nel comune di Scarperia e San Piero, potete visitare i resti del Castello di Montaccianico (immagini sotto) – appartenuto proprio agli Ubaldini – del quale però oggi non rimangono che pochi resti in seguito al lungo assedio perpetrato dai fiorentini che infine lo distrussero completamente (1306), senza poi mai ricostruirlo. Ma perché questo accanimento? Perché la famiglia degli Ubaldini, quando Firenze si trovò divisa tra Guelfi (schierati con il Papa di Roma) e Ghibellini (volenterosi di dare pieni poteri all’imperatore escludendo la Chiesa dalle decisioni politiche), si schierò dalla parte di quest’ultimi inimicandosi così gran parte dei cittadini fiorentini e dando inizio a una secolare guerra contro la potente città, poi prolungatasi con la scissione in Guelfi Bianchi e Neri[2].

Gli Ubaldini e la Divina Commedia

Dato che gli Ubaldini ricoprirono un ruolo di rilevanza proprio nel periodo in cui visse Dante, questi non sfuggirono alla penna del Sommo Poeta che li inserì nella sua Divina Commedia, specchio e testimonianza proprio della vita fiorentina (e non solo)a cavallo tra XIII e XIV secolo.

L’Alighieri cita ben quattro uomini appartenenti alla casata in questione: Ugolino di Azzo, Ubaldino della Pila, il Cardinale Ottaviano e l’Arcivescovo Ruggieri.

Il primo viene semplicemente ricordato da un’anima che dialoga con Dante nel canto XIV del Purgatorio, mentre Ubaldino della Pila è proprio collocato in questa seconda cantica, precisamente nel canto XXIV tra i golosi. Spostandosi più in basso, arrivando dunque all’Inferno, prima incontriamo Ottaviano, posto nel canto X tra le anime degli eretici, poiché accusato da Dante – fermo oppositore dei Ghibellini – di non aver creduto correttamente ai valori della Chiesa. L’ultimo – ma di certo non per importanza – della stirpe che ricordiamo essere citato dal Sommo è l’Arcivescovo di Pisa[3] Ruggieri. Siamo negli ultimi due canti dell’Inferno, precisamente nell’Antenora, in cui ad essere punite sono le anime di coloro che in vita hanno tradito la propria patria. Ruggieri si trova qui immerso nelle acque gelide del Cocito insieme al Conte Ugolino, il quale gli mangia costantemente e brutalmente la testa.

È il Conte stesso a raccontare a Dante – “La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator” (Inferno, canto XXXIII, vv. 1-2) – perché si trovano entrambi dannati all’Inferno, e soprattutto così tanto vicino: proprio Ruggieri, sul finire del ‘200, accusò Ugolino di tradimento facendolo così impriogionare (in quella che poi sarebbe stata chiamata Torre della Fame) con i suoi quattro figli fino alla morte. Leggenda vuole che il Conte, accecato dalla fame, finì per mangiare i corpi dei giovani, morti di stenti prima di lui. Dante, però, nella Commedia sembra abbandonare completamente questa ipotesi:

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, 
già cieco, a brancolar sovra ciascuno, 
e due dì li chiamai, poi che fur morti. 
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno.

(Inferno, canto XXXIII, vv. 70-75)

Gustave Doré,
Conte Ugolino e l’Arcivescovo Ruggeri

Con l’invito a risfogliare questi canti alla ricerca dei componenti della casata degli Ubaldini, vi consigliamo anche di ripercorrere – con noi o in autonomia – le strade di questi personaggi, facendo soprattutto tappa nel bellissimo Mugello che saprà sicuramente affascinarvi tra storia, bellezze artistiche e naturali, e ottimo cibo!


[1] La Biblioteca di Repubblica, L’enciclopedia, vol. 20, UTET, Torino 2003, p.

[2] Florence TV – Città Metropolitana di Firenze, Le Vie di Dante / Mugello, https://www.youtube.com/watch?v=5wO-l6wTr6o&ab_channel=FlorenceTV-Citt%C3%A0MetropolitanadiFirenze, 15 dicembre 2020.

[3] Treccani, Ubaldini, https://www.treccani.it/enciclopedia/ubaldini_%28Enciclopedia-Italiana%29/.