Piccarda si racconta… – Parte 1

Forse pochi di voi mi conoscono e lo capisco… Effettivamente non sono nota quanto Beatrice o Francesca di cui tutti bene o male hanno sentito parlare almeno una volta, ne hanno conosciuto le storie o letto passi della Divina Commedia in cui sono protagoniste. Ecco, quindi, che ho deciso di raccontare al meglio me, la mia famiglia, il mio mondo! Anche perché, non solo sono presente nell’opera più importante di Dante Alighieri, ma io quest’uomo lo conoscevo personalmente!

Abitavamo nello stesso quartiere, a pochi passi l’uno dall’altra, e mia cugina Gemma un giorno divenne sua moglie. Le nostre famiglie si conoscevano da tempo e noi figli siamo cresciuti insieme per i vicoli stretti del quartiere di San Pier Maggiore. Io avevo due fratelli, Corso e Forese, che col tempo divennero amici di Dante, anche se poi crescendo i rapporti andarono in parte incrinandosi poiché, quando ci fu la scissione dei Guelfi in Bianchi e Neri, mentre l’Alighieri si schierò con i primi, la mia famiglia preferì la seconda fazione

Forese Donati, “amico di penna” di Dante

Forese Donati, mio fratello, era conosciuto a Firenze anche per essere un verseggiatore poiché amava dilettarsi nello scrivere e, pensate, addirittura scambiò sonetti burleschi proprio con Dante in una Tenzone scritta forse tra il 1293 e il 1296. I due, in queste poesie, si prendevano gioco l’uno dell’altro, per divertimento! Eh però, alcune verità sotto sotto c’erano… Del resto come dite voi? Arlecchino si confessò burlando! Se da una parte l’Alighieri accusava mio fratello di non soddisfare la moglie Nella tra le mura intime di casa, Forese cercava di colpire Dante sul suo lato economico, effettivamente poco cospicuo, poi incrinato dal mestiere turpe del padre Alighiero, sospettato e conosciuto da molti come usuraio (esercizio mal visto anche dallo stesso Dante che colloca le anime colpevoli di tale peccato nel III girone del VII cerchio dell’Inferno, classificandoli come “violenti contro Dio” addirittura!).


Ma l’invettiva più forte nei confronti di mio fratello fu quella riguardante la gola tanto che poi Dante lo inserì nel Purgatorio proprio nella cornice (VI) dei golosi. Se in vita mio fratello ha potuto godere del cibo e del vino, nell’Aldilà è costretto a sentir per l’eternità la mancanza di questi vizi. Quando i due si incontrarono nel regno dei morti ebbero una lunga conversazione e tra i tanti discorsi Dante chiese a mio fratello quale fosse stato il mio destino e questo gli preannunciò la mia beatitudine in Paradiso, ma parlarono anche dell’altro mio fratello, Corso…

Corso Donati, da compagno di battaglia a Campaldino a nemico politico

Questo è, molto probabilmente, più conosciuto di Forese, anche se il rapporto migliore Dante lo aveva con quest’ultimo. Corso fu uno dei maggiori esponenti politici della Firenze a cavallo fra 1200 e 1300. Era un uomo che amava la politica e la violenza, ecco perché quando la città si divise in fazioni, scelse quella più riottosa, la parte nera dei Guelfi, divenendone uno dei capi assoluti. Dato il suo modo di fare, così aggressivo, venne soprannominato “Il Barone”.

Ancor prima della scissione dei Guelfi, il Sommo Poeta e mio fratello combatterono fianco a fianco per difendere la propria fazione dagli aretini Ghibellini. Lo fecero l’11 giugno 1289 nella piana di Campaldino, in Casentino. La zona, ancora oggi bellissima, appena sotto il Castello di Poppi che fu dei Conti Guidi, bagnata dal fiume Arno che nasce poco più sopra sul Monte Falterona, si macchiò interamente di sangue. La Battaglia di Campaldino fu infatti molto cruenta: entrambe le parti videro molti dei propri soldati esalare lì l’ultimo respiro, soprattutto da quei ghibellini brutalmente sconfitti. Dante all’epoca era giovanissimo, aveva appena 24 anni e per lui la guerra era cosa sconosciuta. Fu la prima e unica volta in cui si trovò a cavallo armato di pugnale e coraggio. Corso, invece, era uno dei condottieri che guidarono i Guelfi nella battaglia. Grazie anche alla sua bravura nel combattere, la fazione vinse e fece sì che Firenze divenisse una delle città più potenti e temibili dell’intera Toscana.


Le azioni compiute da questo mio fratello così fiero e violento furono moltissime… quasi tutte discutibili e dolorose per molti, tra questi io, sua sorella Piccarda. Il legame di parentela per Corso significava ben poco

Corso rapisce Piccarda

Quando sono nata e cresciuta io, Firenze era avvolta in un clima instabile fatto di violenza, intrighi e incerte alleanze. Ritirarmi nel convento di Santa Chiara mi avrebbe permesso sì di avvicinarmi al Signore, ma anche di allontanarmi dal quel mondo così irruento, frenetico, subdolo… Purtroppo però questo non bastò! Corso un giorno venne da me, ma non per farmi visita come avrebbe dovuto fare un buon fratello, bensì per prendermi e portarmi via di lì, da quel luogo a me così caro. Senza chiedermi il consenso, lui aveva già deciso di cedermi in sposa a Rossellino della Tosa, anch’egli esponente di spessore della parte Nera dei Guelfi. Il motivo era chiaro e semplice, nonché subdolo e malvagio: la nostra unione avrebbe apportato alla mia famiglia alcuni vantaggi economici e a Corso altrettanti riguardanti la sua carriera politica. Venni strappata dalla mia casa in un atto sacrilego che mi obbligò a venir meno ai voti. Nonostante questo, la bontà del Signore poi mi salvò: poco dopo il matrimonio lasciai il mondo terreno per risiedere tra i beati in Paradiso.


Corso, invece, fu ripagato con le sue stesse armi per il gesto inflittomi e per tutte le malvagità che aveva fatto a chiunque si fosse messo a guastare i suoi piani. Quel Rossellino, infatti, che per un certo periodo fu suo alleato e “amico”, ben presto si alleò con i tanti nemici che negli anni mio fratello si era creato. Il 6 ottobre 1308 venne da questi condannato a morte: colpevole di tradimento, così dicevano. Corso non si dette per vinto e provò con tutte le sue forze a fuggire dal terribile destino, ma fu tutto vano. Egli cadde da cavallo, ma rimasto nella staffa impigliato, venne dolorosamente e con furia trascinato per le strade polverose finché morte non sopraggiunse…

___________________________

Bibliografia e sitografia

Aleardo Sacchetto, Il canto di Piccarda Donati, in Dieci letture dantesche, Le
Monnier, Firenze 1960.
Alessandro Barbero, Alighieri Durante detto Dante, Laterza, 2020.
Alessandro Barbero, 1289. La battaglia di Campaldino. Gli anni di Firenze, Ebook, Laterza, 2019.
Dante Alighieri, La Divina Commedia ed. integrale, Europea Book, 2011.
Fausto Montanari, La Piccarda di Dante, in Miscellanea di studi danteschi: in memoria di Silvio Pasquazi, Federico & Ardia, Napoli 1993.
Marco Santagata, Le donne di Dante, Bologna, Il Mulino 2021

Ernesto Sestan, Donati Corso, in Enciclopedia Dantesca, 1970, sito.
Le Gallerie degli Uffizi, Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso, sito.
Marco Bicchierai, 6 ottobre 1308: la morte di Corso Donati, sito.
Renato Piattoli, Donati, in Enciclopedia Dantesca, 1970, sito.
Simone Valtorta, Dante, poeta scurrile: la tenzone con Forese Donati, settembre 2016, sito.

Immagini

  1. Giovanni Bastianini, Busto di Piccarda Donati, 1855, fonte: Gallerie degli Uffizi.
  2. Gustave Doré, Dante Alighieri, Stazio e Virgilio incontrano Forese Donati, Illustrazione Purgatorio Canto XXIII, 1890.
  3. Miniatura contenuta nella Nova Cronica di Giovanni Villani, Corso Donati fa liberare dei prigionieri politici, XIV secolo, fonte: Wikipedia.
  4. La riserva dei Conti Guidi alla battaglia di Campaldino, fonte.
  5. Raffaello Sorbi, Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso, 1866, fonte: Gallerie degli Uffizi.

Matelda si racconta… – Parte 1

Sono la più enigmatica delle Donne della Commedia. Su di me è stato scritto di tutto. Donna reale, simbolo, allegoria. Non vi prometto di rivelarvi la mia identità, ma vi lascerò alcuni indizi. Dante ha voluto che restassi inaccessibile ai molti, e svelata solo ai pochi.

La custode del Paradiso Terrestre

Quando il Poeta mi raggiunge nel Paradiso Terrestre, ha già attraversato la voragine infernale e scalato la montagna del Purgatorio. Ha vinto gli istinti e riconquistato il libero arbitrio.  Egli entra nell’“antica selva”. Scopre l’Eden nella sua armonia perfetta. Gli uccelli accolgono l’alba intonando il loro canto. La luce del nuovo sole è temperata dagli alberi. Le fronde dolcemente oscillano, mosse da una brezza soave. Erbette, fiori e arboscelli profumano l’aria e colorano i prati. Dante si inoltra nella foresta tanto da non riuscire più a vedere da che parte è entrato. Prosegue e giunge ad un fiume dalle limpidissime onde. Fermatosi, spinge lo sguardo all’altra riva e mi vede. Lo stavo aspettando. 

Matelda e Dante si incontrano

Appena Dante mi vede, il suo volto è incantato dalla meraviglia. Come donna innamorata canto e percorro a lenti passi la riva del fiume. La fine del viaggio in Purgatorio è quasi giunta, ma eventi prodigiosi accadono: prima l’arrivo della processione mistica intorno al carro allegorico trainato dal grifone, poi finalmente l’apparizione di Beatrice. Tutta la potenza dell’antico amore promana dal cuore di Dante. Sopraffatto, il Poeta cerca Virgilio, ma non lo trova più al suo fianco. Alle lacrime per la scomparsa della guida si aggiunge il dolore all’aspro rimprovero di Beatrice, per essersi allontanato dalla dritta via dopo la morte di lei.

Dante prova un rimorso così profondo che perde i sensi e cade svenuto. Quando ritorna in sé, si trova immerso fino alla gola nel fiume Letè. Sono proprio io a sorreggerlo, cingendogli con le braccia la testa e poi tuffandolo sott’acqua. Questo è il compito che devo svolgere, concludendo il percorso delle anime del Purgatorio iniziato con la confessione e la salita attraverso le cornici del monte, sette come i peccati capitali.

Già purificate con il rito del fuoco, le anime necessitano di un’ultima purificazione: l’immersione nel Letè, il fiume che cancella il ricordo dei peccati. Eseguendo gli ordini di Beatrice, accompagno Dante a bere le acque del sacro fiume Eunoè. A quel punto Dante è pronto per salire in Paradiso e con questi celebri versi chiude la cantica del Purgatorio: «rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda / puro e disposto a salir le stelle».

Matelda come Proserpina

È venuto il momento di aggiungere un’altra tessera al mosaico della mia storia. Userò le parole che Dante mi rivolge: “Tu mi fai rimembrar Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera” (Purgatorio XXVIII, vv. 50-51). Ma cosa lo colpisce tanto da rievocare il mito antico della vergine Proserpina, figlia di Cerere, dea della fertilità e dei raccolti? So bene che Dante ammira le Metamorfosi di Ovidio, poeta latino che Dante tanto ammira, descrivono una situazione che avete già letto quando ho iniziato il mio racconto: anche la giovane Proserpina si trova presso un luogo d’acqua – il lago Pergusa – non lontano da Enna, e «un bosco fa da corona alle sue acque e d’ogni lato cinge velando con le fronde le vampe del sole. I rami donano frescura, fiori di vari colori sorgono dall’umida terra: è primavera eterna. In questo bosco gioca Proserpina e coglie viole o candidi gigli e a gara con le sue compagne riempie i canestri e i lembi della veste con gioia di fanciulla». Ecco, la mia condizione è quella di Proserpina prima di essere rapita dal dio degli inferi Plutone.

Il mito

Ovidio così prosegue: «Plutone la vide e subito arse d’amore e la rapì: tanto violenta irruppe la passione». Proserpina è terrorizzata e grida il nome della madre mentre il dio la trascina sotto terra. Tanto candida è la giovane creatura che si addolora che le siano caduti i fiori raccolti nel lembo della tunica. Intanto Cerere, angosciata, cerca invano la figlia per terra e per mare. Il dolore della dea non lascia più germogliare i semi: privati dei frutti della terra, gli uomini sono condannati alla fame. Cerere scopre infine che Proserpina è diventata la «suprema signora del mondo tenebroso, potente sposa del re dell’Averno». E così raggiunge Giove, padre di Proserpina e lo convince a far tornare la figlia nel mondo della luce. Tuttavia, l’ingenua fanciulla, inconsapevole della legge che lega agli inferi chi si pasce del cibo dei morti, aveva già mangiato sette chicchi di melograno. Sarà condannata per sempre al mondo sotterraneo. Giove interviene nella contesa e divide il corso dell’anno in due parti uguali: per sei mesi Proserpina starà con la madre e per sei mesi convivrà con lo sposo. Sulla terra avrà così inizio il ciclo delle stagioni

Tra canti, fiori e profumi…

Il racconto dell’incontro tra me e Dante sulla riva del fiume è riportato con la grazia dello stil novo. «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore / ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti / che soglion esser testimon del core, / vegnati in voglia di trarreti avanti». Vedendomi cantare e cogliere fiori, muovendomi a passo di danza, Dante mi prega di avvicinarmi per sentire le parole del mio canto. Con mosse leggiadre lo raggiungo e alzo lo sguardo. Il poeta ammira incantato i miei occhi, lucenti come quelli di Venere.

Gli rivelo la mia bellezza con dolce sorriso, mentre le mani intrecciano ghirlande coi fiori appena raccolti.  Ora mi premuro di raccontare la mia letizia a Dante – e a Virgilio e Stazio che lo hanno raggiunto – con il salmo Delectasti, un inno di lode a Dio per le bellezze del Creato. Illustro le leggi che governano i fenomeni naturali nel Paradiso Terrestre, come l’origine astrale della brezza che culla la foresta. Quanto ai corsi d’acqua – il fiume Letè che cancella la memoria dei peccati commessi, e l’Eunoè che rafforza il ricordo del bene compiuto – rivelo che sgorgano da una sorgente perenne che scaturisce per volere divino. Gli antichi poeti che cantarono il Parnaso e la mitica età dell’oro ebbero la visione di questo luogo in cui l’uomo fu felice, dove regna un’eterna primavera. Adesso è chiaro perché io son colei che è lieta, come il mio nome, letto al contrario, rivela.

__________________________

Bibliografia

Dante Alighieri, Purgatorio, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Grassina, [Bagno a Ripoli], Le Monnier, 2002
Persefone. Variazioni sul mito, a cura di Roberto Deidier, Venezia, Marsilio, 2010
Gianni Vacchelli, Dante e l’iniziazione femminile. Beatrice, Maria e altre “dee”, Alzano Lombardo, Lemma Press, 2020
Marco Santagata, Le donne di Dante, Bologna, Il Mulino, 2021
Edi Minguzzi, Il dizionarietto dantesco: le parole ermetiche della Divina Commedia, Brescia, Scholé, 2021

Sitografia

Nel labirinto della commedia, Le Gemme nel cielo di Venere, https://nellabirintodellacommedia.wordpress.com/

Immagini

  1. Illustrazione del Purgatorio di Massimo Tosi;
  2. Nicolò Barabino, Dante incontra Matelda, 1876 – 1877;
  3. Matelda a Dante, particolare di Ezio Anichini;
  4. Sandro Botticelli, Primavera, 1478-1482;
  5. Dante Gabriel Rossetti, Proserpina, 1855 circa.

Bella degli Abati, la mamma di Dante. La figura materna nella Commedia

Poche sono le informazioni biografiche relative all’infanzia di Dante Alighieri, nonostante la fama da lui poi raggiunta come poeta della Divina Commedia e padre della lingua italiana. Immaginate, quindi, quanto scarne possano essere le informazioni che ci sono giunte sulla sua mamma Bella.

La famiglia degli Abati

Stemma della famiglia degli Abati.
Fonte: Archivio di Stato di Firenze.

La madre di Dante era infatti, con ogni probabilità, Gabriella di Durante degli Abati, appartenente a una ricca e potente famiglia che abitava nello stesso quartiere degli Alighieri. Ciò spiegherebbe sia il nome del sommo poeta, che avrebbe così ereditato il nome del nonno paterno, sia il perché Durante degli Abati si fece garante di prestiti concessi ai fratelli Alighieri, Dante e Francesco. Gli Abati erano Ghibellini e gli Alighieri, come è noto, erano invece dei Guelfi. Ma ciò non deve stupirci poiché molto spesso i matrimoni fra le famiglie avversarie si combinavano proprio per porre una piccola tregua alle contese.

Il piccolo Dante Alighieri però rimase orfano della madre quando era ancora in tenera età e quando era poco più che decenne, anche del padre. Dante non racconta praticamente niente della sua infanzia, per cui non c’è neanche dato conoscere quale fu il rapporto con la seconda moglie del padre, Lapa Cialuffi. 

La figura della madre nella Commedia

Anche nella Divina Commedia, Dante accenna solo poche volte e vagamente, a se stesso e ai propri familiari. In particolare non nomina mai direttamente la propria madre. Ma il termine “mamma” compare certamente tra le terzine dantesche che descrivono il viaggio del poeta pellegrino nei tre mondi ultraterreni. Nel Purgatorio, esattamente nel V girone, Dante, con la sua guida Virgilio, incontra il poeta latino Stazio. L’ autore della Tebaide e della Achilleide, vissuto nel I secolo d.C. dopo essersi presentato, inizia una commossa esaltazione di Virgilio e della sua opera, affermando che l’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice poetando” (Purg. XXI, 97-98). Stazio ci sta dicendo che l’ Eneide non solo alimentò ed educò il suo spirito poetico, ma fu una vera e propria madre che generò in lui l’amore per la poesia. Dante allora rivela a Stazio il nome della sua guida, Virgilio ed i tre poeti continuano il viaggio sul monte del Purgatorio, fino a quando, davanti a loro appare una processione che avanza lentamente verso il fiume Letè: siamo nel Paradiso Terrestre. In mezzo a una nuvola di fiori, vestita di rosso, coperta di un manto verde, con il capo cinto da un velo bianco, sostenuto da un ramo di ulivo, appare davanti agli occhi di Dante, l’amata Beatrice. Il poeta pellegrino, smarrito dalla forza dell’ amore che in quel momento lo prende, si volge verso Virgilio, accorgendosi però che il Maestro lo ha lasciato. Il sommo ci descrive quel momento così: 

“volsimi alla sinistra col rispitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto”

(Purg. XXX, 44-45).

Quindi Dante si paragona ad un bambino che corre dalla mamma quando ha paura o prova dolore esprimendo con estrema semplicità, tutto il suo affetto per “Virgilio dolcissimo patre” (Purg. XXX, 50).

Maria: la madre delle madri

Ed ecco che giungiamo nel Paradiso, luogo in cui la figura della madre delle madri, la Vergine Maria, è celebrata. Ora è Beatrice la guida di Dante. Una volta giunti nei pressi dell’Empireo appare davanti a loro la figura della Madre di Cristo, circondata dagli Apostoli. L’arcangelo Gabriele innalza un inno di lode a Maria, imitato da tutti i beati. Dopodiché ella ascende all’Empireo e mentre ella si allontana verso l’alto, i santi, per manifestare tutto il loro affetto, si protendono, si allungano verso l’alto, verso di lei. Dante li paragona a dei bambini che cercano di raggiungere la propria mamma tendendo le braccia: 

“E come fantolin che ‘nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ‘l latte prese,
per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma”

(Par. XXIII, 121-123). 


Anche all’Inferno

Ma il termine “mamma” lo troviamo anche nell’Inferno. Siamo nel cerchio dei traditori, nella zona detta Antenora, dove sono puniti i traditori della patria. Dante dimostra un totale e freddo distacco di fronte alla sofferenza di queste anime. Tale distacco trova forma nel dato espressivo utilizzato dal poeta nella Commedia proprio da questo canto in poi (“le rime aspre e ciocche,/ come si converrebbe al tristo buco/ sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce”, Inf. XXXII, 1-3). Descrivere ciò che il poeta vedrà nelle Malebolge, non è, infatti, 

“impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo”
(Inf. XXXII, 7-9). 

Non si tratta, cioè, di un’impresa da prendere alla leggera descrivere il fondo dell’Inferno, creduto allora il centro della Terra e quindi il centro di tutto l’universo. Non è questa una visione che si può descrivere agli altri con una lingua infantile, dei bimbi piccoli che imparano a dire mamma e babbo.

Dante incontra un suo antenato

Avanzando sulla superficie ghiacciata del Cocito, Dante colpisce con il piede, una delle teste che da essa emergono. Il dannato chiede il motivo di tanta crudeltà. Il poeta vorrebbe conoscere il nome del dannato, ma questi non vuole rivelarglielo. Dante allora lo prende “per la cuticagna” (Inf. XXXII, 97). Dante, cioè lo afferra per i capelli e gli strappa diverse ciocche. Allora un altro dannato che appaga il desiderio del pellegrino rivelando il nome del traditore: è Bocca degli Abati, colui che a Monteaperti recise, con un colpo di spada, la mano del porta insegna della cavalleria fiorentina, provocando la sanguinosa sconfitta dei guelfi di Firenze contro i ghibellini di Siena. Un Abati, quindi, membro della famiglia della mamma di Dante, aveva provocato la tremenda e celebre sconfitta.

Gustave Doré, Dante incontra Bocca degli Abati.

__________________________

Bibliografia

Bargellini P., La splendida storia di Firenze. Da Giulio Cesare a Dante, Vol. 1, Firenze, Vallecchi, 1980
Santagata M., Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, Mondadori, 2020Dante Alighieri, La Divina Commedia, con prefazione di Giuseppe Ungaretti, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1965