L’abbigliamento femminile nel Medioevo

Non è mai facile ed immediato immaginarsi la donna del Medioevo, probabilmente a causa delle rare immagini di figure femminile a noi rinvenute, spesso troppo diverse tra loro, che portano inevitabilmente a creare confusione.

Prima ancora di farle rivestire qualsivoglia incarico, infatti, è giusto avere un’immagine ben delineata dell’aspetto esteriore della donna. E quale miglior modo scegliere se non partire dall’abbigliamento

Come si vestivano le donne nel Medioevo?

Troppo spesso le invenzioni narrative ci hanno portato a immaginare gli abiti femminili nei modi più disparati: c’è chi sostiene il vestito lunghissimo completamente privo di ricami o decori, chi invece è convinto che la donna mettesse in mostra le curve del proprio corpo, capelli raccolti, capelli sciolti, cuffie o veli. Insomma, vediamo di fare un po’ di chiarezza. 

Iniziamo con qualche cenno storico: la vera e primordiale moda medievale è nata dall’influenza che hanno avuto gli indumenti dei primi invasori barbari sulla moda romana. Una delle più grandi innovazioni furono le brache, antenate dei moderni pantaloni.

Con il passare degli anni e l’annessione di queste popolazioni a quelle che già abitavano buona parte dell’Europa occidentale, ciò sul quale si iniziò a concentrarsi maggiormente non erano solamente le forme dei nuovi indumenti, ma anche i materiali. I grandi commerci verso il Medioriente portarono nella “più civilizzata Europa” seta e cotone, che ancora oggi sono la base dell’industria tessile.

Il peplo

Ma guardiamo nello specifico alla moda femminile. Inizialmente la donna rimase fedele al peplo, abito tipico della cultura greca, che man mano subì modifiche e variazioni. Alla lunga tunica venne cambiata la scollatura e ne venne inserita una profonda e verticale, chiusa da lacci che ricordavano la chiusura di un corpetto. Il materiale prediletto era la lana
Vi era una fascia orizzontale, molto spessa, che doveva sottolineare la vita. Più i lacci della parte superiore del vestito erano stretti, più esaltavano la silhouette della donna, che veniva ben definita per sfociare poi in una gonna decorata e rotonda.

Vi era la possibilità di vedere anche lunghe maniche di camicia che fuoriuscivano delle tuniche: era una sorta di sottoveste in camicia che arrivava fino a terra chiamata sotano. Una caratteristica che impreziosiva l’abito era lo strascico che veniva portato arrotolato attorno al braccio dalle donne per non rischiare che si sporcasse eccessivamente.

Via le brache!

Per quanto gli indumenti femminili non si allontanassero eccessivamente dalla moda maschile, le donne non indossavano le brache. L’idea di abbigliamento intimo, infatti nel Medioevo non era del tutto sviluppata: nessuno indossava le mutande, né uomini né donne, ma per queste ultime era comune stingersi al petto un velo di mussolina come se fosse una sorta di reggiseno

Dal collo alla punta dei piedi

L’abito per eccellenza nella moda femminile rimane la tunica. La lunghezza della veste doveva ricoprire il corpo della donna completamente, comprendendo anche i piedi. Sotto la lunga gonna era uso indossare delle calze, mentre sopra cuffie e mantelle soprattutto nei mesi più rigidi. 
Ciò che poteva distinguere una donna dall’altra erano le decorazioni degli abiti, più sfarzose per le donne provenienti da condizioni economiche più favorevoli, e la modalità con cui si acconciavano i capelli.

La copertura quasi integrale della testa era indicata prevalentemente per le donne sposate. I veli che queste si ponevano sul capo, spesso coprivano anche le spalle e venivano fermate sull’abito da spille che ne impedivano il movimento. Alcune donne portavano anche cappelli, alcuni piuttosto bizzarri. 

Le calzature che venivano maggiormente utilizzate erano basse, di cuoio, ben decorate, di forma appuntita, addirittura alle volte foderate di pelliccia

L’abito fa il monaco

Le famiglie più abbienti, per sottolineare il loro titolo, utilizzavano stoffe e materiali degli stessi colori dei loro stemmi o che a primo sguardo, ricordassero immediatamente la casata. Questo valeva anche per le donne e per le serve. 

Le donne arricchivano i loro abiti con gioielli, prevalentemente d’oro, e acconciature particolari. I capelli non venivano portati sciolti, anzi, venivano fermati spesso con trecce che a loro volta venivano inserite all’interno di una rete per sorreggerle.
Anche in quel periodo era importante come si appariva alla società, soprattutto perché poteva essere causa del proprio destino e indirizzarlo verso una certa fortuna o meno. 

Forse con queste poche informazioni non faremo più troppa fatica ad immaginarci quelle belle signore che si muovevano tra le abitazioni, i mercati e nelle chiese nel secolo delle Luci e delle Ombre

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Bibliografia e Sitografia: 
http://ilmondodiaura.altervista.org/MEDIOEVO/ABBIGLIAMENTO.htm
https://it.wikipedia.org/wiki/Abbigliamento_nell%27Alto_Medioevo

Piccarda si racconta… – Parte 1

Forse pochi di voi mi conoscono e lo capisco… Effettivamente non sono nota quanto Beatrice o Francesca di cui tutti bene o male hanno sentito parlare almeno una volta, ne hanno conosciuto le storie o letto passi della Divina Commedia in cui sono protagoniste. Ecco, quindi, che ho deciso di raccontare al meglio me, la mia famiglia, il mio mondo! Anche perché, non solo sono presente nell’opera più importante di Dante Alighieri, ma io quest’uomo lo conoscevo personalmente!

Abitavamo nello stesso quartiere, a pochi passi l’uno dall’altra, e mia cugina Gemma un giorno divenne sua moglie. Le nostre famiglie si conoscevano da tempo e noi figli siamo cresciuti insieme per i vicoli stretti del quartiere di San Pier Maggiore. Io avevo due fratelli, Corso e Forese, che col tempo divennero amici di Dante, anche se poi crescendo i rapporti andarono in parte incrinandosi poiché, quando ci fu la scissione dei Guelfi in Bianchi e Neri, mentre l’Alighieri si schierò con i primi, la mia famiglia preferì la seconda fazione

Forese Donati, “amico di penna” di Dante

Forese Donati, mio fratello, era conosciuto a Firenze anche per essere un verseggiatore poiché amava dilettarsi nello scrivere e, pensate, addirittura scambiò sonetti burleschi proprio con Dante in una Tenzone scritta forse tra il 1293 e il 1296. I due, in queste poesie, si prendevano gioco l’uno dell’altro, per divertimento! Eh però, alcune verità sotto sotto c’erano… Del resto come dite voi? Arlecchino si confessò burlando! Se da una parte l’Alighieri accusava mio fratello di non soddisfare la moglie Nella tra le mura intime di casa, Forese cercava di colpire Dante sul suo lato economico, effettivamente poco cospicuo, poi incrinato dal mestiere turpe del padre Alighiero, sospettato e conosciuto da molti come usuraio (esercizio mal visto anche dallo stesso Dante che colloca le anime colpevoli di tale peccato nel III girone del VII cerchio dell’Inferno, classificandoli come “violenti contro Dio” addirittura!).


Ma l’invettiva più forte nei confronti di mio fratello fu quella riguardante la gola tanto che poi Dante lo inserì nel Purgatorio proprio nella cornice (VI) dei golosi. Se in vita mio fratello ha potuto godere del cibo e del vino, nell’Aldilà è costretto a sentir per l’eternità la mancanza di questi vizi. Quando i due si incontrarono nel regno dei morti ebbero una lunga conversazione e tra i tanti discorsi Dante chiese a mio fratello quale fosse stato il mio destino e questo gli preannunciò la mia beatitudine in Paradiso, ma parlarono anche dell’altro mio fratello, Corso…

Corso Donati, da compagno di battaglia a Campaldino a nemico politico

Questo è, molto probabilmente, più conosciuto di Forese, anche se il rapporto migliore Dante lo aveva con quest’ultimo. Corso fu uno dei maggiori esponenti politici della Firenze a cavallo fra 1200 e 1300. Era un uomo che amava la politica e la violenza, ecco perché quando la città si divise in fazioni, scelse quella più riottosa, la parte nera dei Guelfi, divenendone uno dei capi assoluti. Dato il suo modo di fare, così aggressivo, venne soprannominato “Il Barone”.

Ancor prima della scissione dei Guelfi, il Sommo Poeta e mio fratello combatterono fianco a fianco per difendere la propria fazione dagli aretini Ghibellini. Lo fecero l’11 giugno 1289 nella piana di Campaldino, in Casentino. La zona, ancora oggi bellissima, appena sotto il Castello di Poppi che fu dei Conti Guidi, bagnata dal fiume Arno che nasce poco più sopra sul Monte Falterona, si macchiò interamente di sangue. La Battaglia di Campaldino fu infatti molto cruenta: entrambe le parti videro molti dei propri soldati esalare lì l’ultimo respiro, soprattutto da quei ghibellini brutalmente sconfitti. Dante all’epoca era giovanissimo, aveva appena 24 anni e per lui la guerra era cosa sconosciuta. Fu la prima e unica volta in cui si trovò a cavallo armato di pugnale e coraggio. Corso, invece, era uno dei condottieri che guidarono i Guelfi nella battaglia. Grazie anche alla sua bravura nel combattere, la fazione vinse e fece sì che Firenze divenisse una delle città più potenti e temibili dell’intera Toscana.


Le azioni compiute da questo mio fratello così fiero e violento furono moltissime… quasi tutte discutibili e dolorose per molti, tra questi io, sua sorella Piccarda. Il legame di parentela per Corso significava ben poco

Corso rapisce Piccarda

Quando sono nata e cresciuta io, Firenze era avvolta in un clima instabile fatto di violenza, intrighi e incerte alleanze. Ritirarmi nel convento di Santa Chiara mi avrebbe permesso sì di avvicinarmi al Signore, ma anche di allontanarmi dal quel mondo così irruento, frenetico, subdolo… Purtroppo però questo non bastò! Corso un giorno venne da me, ma non per farmi visita come avrebbe dovuto fare un buon fratello, bensì per prendermi e portarmi via di lì, da quel luogo a me così caro. Senza chiedermi il consenso, lui aveva già deciso di cedermi in sposa a Rossellino della Tosa, anch’egli esponente di spessore della parte Nera dei Guelfi. Il motivo era chiaro e semplice, nonché subdolo e malvagio: la nostra unione avrebbe apportato alla mia famiglia alcuni vantaggi economici e a Corso altrettanti riguardanti la sua carriera politica. Venni strappata dalla mia casa in un atto sacrilego che mi obbligò a venir meno ai voti. Nonostante questo, la bontà del Signore poi mi salvò: poco dopo il matrimonio lasciai il mondo terreno per risiedere tra i beati in Paradiso.


Corso, invece, fu ripagato con le sue stesse armi per il gesto inflittomi e per tutte le malvagità che aveva fatto a chiunque si fosse messo a guastare i suoi piani. Quel Rossellino, infatti, che per un certo periodo fu suo alleato e “amico”, ben presto si alleò con i tanti nemici che negli anni mio fratello si era creato. Il 6 ottobre 1308 venne da questi condannato a morte: colpevole di tradimento, così dicevano. Corso non si dette per vinto e provò con tutte le sue forze a fuggire dal terribile destino, ma fu tutto vano. Egli cadde da cavallo, ma rimasto nella staffa impigliato, venne dolorosamente e con furia trascinato per le strade polverose finché morte non sopraggiunse…

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Bibliografia e sitografia

Aleardo Sacchetto, Il canto di Piccarda Donati, in Dieci letture dantesche, Le
Monnier, Firenze 1960.
Alessandro Barbero, Alighieri Durante detto Dante, Laterza, 2020.
Alessandro Barbero, 1289. La battaglia di Campaldino. Gli anni di Firenze, Ebook, Laterza, 2019.
Dante Alighieri, La Divina Commedia ed. integrale, Europea Book, 2011.
Fausto Montanari, La Piccarda di Dante, in Miscellanea di studi danteschi: in memoria di Silvio Pasquazi, Federico & Ardia, Napoli 1993.
Marco Santagata, Le donne di Dante, Bologna, Il Mulino 2021

Ernesto Sestan, Donati Corso, in Enciclopedia Dantesca, 1970, sito.
Le Gallerie degli Uffizi, Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso, sito.
Marco Bicchierai, 6 ottobre 1308: la morte di Corso Donati, sito.
Renato Piattoli, Donati, in Enciclopedia Dantesca, 1970, sito.
Simone Valtorta, Dante, poeta scurrile: la tenzone con Forese Donati, settembre 2016, sito.

Immagini

  1. Giovanni Bastianini, Busto di Piccarda Donati, 1855, fonte: Gallerie degli Uffizi.
  2. Gustave Doré, Dante Alighieri, Stazio e Virgilio incontrano Forese Donati, Illustrazione Purgatorio Canto XXIII, 1890.
  3. Miniatura contenuta nella Nova Cronica di Giovanni Villani, Corso Donati fa liberare dei prigionieri politici, XIV secolo, fonte: Wikipedia.
  4. La riserva dei Conti Guidi alla battaglia di Campaldino, fonte.
  5. Raffaello Sorbi, Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso, 1866, fonte: Gallerie degli Uffizi.